Emancipation – Oltre la libertà: recensione del film Apple TV+

Emancipation è un ottimo film sulla sopravvivenza disperata.

Distribuito all’interno dell’ormai ricchissimo catalogo cinematografico di Apple TV+ a partire dal 9 Dicembre 2022, Emancipation, il quindicesimo lungometraggio da regista di Antoine Fuqua, scritto da Bill Collage e interpretato da un Will Smith che sembra rifarsi dalla prima all’ultima inquadratura al Di Caprio di The Revenant, traendo ispirazione dalla storia vera di Peter – Il fustigato, diviene cinema di denuncia rispetto al tema mai dimenticato dell’olocausto nero (Schiavitù negli Stati Uniti d’America) e dunque della discriminazione razziale, ancora oggi così tristemente attuale.

Emancipation – Oltre la libertà: di cosa parla il film con Will Smith?

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Louisiana, 1860. Peter (Will Smith) sopravvive trovando la forza nella fede religiosa, insieme alla moglie Dodienne (Charmaine Bingwa) e ai tre figlioletti, all’interno della piantagione schiavista dei fratelli Lyons. La sofferenza tra soprusi, fustigate, umiliazioni e violenze di ogni sorta raggiunge il suo apice il giorno in cui Peter viene allontanato a forza dalla piantagione, poiché dato in pegno ad un altro bianco schiavista impegnato nella costruzione di una ferrovia nel bel mezzo della Louisiana.

Quel giorno però Peter promette alla sua famiglia di tornare, e nonostante la nuova condizione da schiavo si riveli estremamente peggiore della precedente, in termini di sadismo e violenze, grazie alla sua fede incrollabile Peter riesce a fuggire, sparendo tra foreste e paludi del Bayou, servendosi di espedienti tanto efficaci, quanto disperati, capaci di allontanarlo passo dopo passo dagli spietati cacciatori di taglie sguinzagliati dal nuovo padrone, con tanto di cani addestrati ad uccidere.

Una fuga senza fine destinata a restare nella storia, incisa nella memoria come una cicatrice sulla pelle, proprio come quelle che marchiano dolorosamente la schiena di Peter e che lo faranno conoscere al mondo intero.

Quando una fotografia diventa un simbolo

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Emancipation parte da una fotografia divenuta immediatamente simbolo della lotta alla schiavitùThe Scourged Back, scattata dai fotografi di New Orleans William McPherson e J Oliver – tale da aver smosso le coscienze di molti cittadini statunitensi, su tutte, quelle dei sudisti, o di coloro che scelsero di affidarsi ad essi fino a quel momento, in quanto convinti della condizione necessaria della schiavitù per una sopravvivenza economica e una disponibilità di forza lavoro nelle piantagioni che se assenti, decisamente fatali per il destino degli americani bianchi.

Una fotografia che non appena diffusa, si scontra con le menzogne e che diviene prova inconfutabile e testimonianza diretta delle brutalità scaturite e generate senza tregua alcuna dal fenomeno incontrollabile e incontrollato dello schiavismo. Un’immagine che fa scalpore, scioccando e mutando consapevolezze assolutamente ferree di una condizione opposta a quella vissuta da Peter e da tutti gli altri uomini, donne e bambini come lui. L’abolizionismo si scontra in quel momento con una fotografia incisa nella memoria di ognuno e nulla è più celato, né tantomeno considerato come fatto non verificabile, come spesso avveniva.

La storia è reale e Antoine Fuqua, intercettando una spec script di William N. Collage (Bill Collage, già sceneggiatore di Exodus – Dei e Re) la rende cinema, all’interno di un film tanto potente, quanto sincero e disperato, che nel suo farsi racconto di denuncia, è capace di muoversi con grandissima abilità dalle parti del survival movie, del western e del war movie, risultando doloroso e al tempo stesso ansiogeno e spettacolare, nonostante il peso della retorica (soprattutto rispetto al discorso della fede incrollabile) sia sempre dietro l’angolo.

La ricerca del dolore e del pericolo – Il Bayou, La Tensione e Il Vietnam

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Il film di Fuqua, forte di una fotografia incredibilmente potente, livida e tendente al bianco e nero ad opera del premio Oscar Robert Richardson (uno dei tre direttori della fotografia viventi, oltre a Vittorio Storaro ed Emmanuel Lubezki, ad aver vinto per tre volte il premio) opera una costante ricerca della sensazione del pericolo, dell’abbandono e del dolore, interessandosi tanto ai volti madidi di sudore e talvolta insanguinati e segnati dalla stanchezza e dalla rassegnazione degli schiavi, quanto ai luoghi, così definitivamente mortali, melmosi e acquitrinosi di un Bayou che potrebbe tranquillamente collocarsi altrove.

Basti pensare al Vietnam, che torna nel corso del film, e che distanzia sempre più la collocazione reale del film da quella del racconto specifico, avvicinandola ad una narrazione totale, capace di abbracciare interi scenari di guerra, globali, disperati e inutili allo stesso modo. Il Bayou di Emancipation è a tal punto universale da non sembrare affatto legato a quella Louisiana terra di nessuno o in alternativa, terra di confine tra civiltà capaci di accettare il cambiamento e civiltà che sceglievano invece di abbracciare un’arretratezza cieca, violenta e spietata senza fine, come quella degli schiavisti.

Il Bayou diviene dunque il vero e proprio protagonista del film che sceglie le sorti degli individui che vi si muovono all’interno, immergendo lo spettatore in una dinamica paesaggistica (dunque scenica), e solo in secondo luogo narrativa di grande tensione e pathos che Fuqua ben gestisce fin dai tempi di Training Day, L’ultima alba e Shooter, tre titoli di una ricca filmografia sempre attenta alla spettacolarità e alla dinamica ansiogena dell’inseguimento e del pericolo sempre in agguato.

La tensione si rivela elemento ricorrente, se non onnipresente, all’interno di quest’ultima fatica di Fuqua, che sorprendendo un po’ tutti dopo alcuni titoli non proprio riuscitissimi e soddisfacenti, torna con il film più probabilmente potente, sincero e memorabile di carriera, che pur raccontando un tema importante e lacerante come quello dello schiavismo nero nel corso degli ultimi anni del 1800, riesce a mutare senza mai apparire ridicolo, retorico o superficiale dal cinema storico glorioso ed eroico, a quello di sopravvivenza, e poi ancora western, e war movie fino al thriller ansiogeno, palpitante e dalla tensione continua, intrattenendo e conquistando lo spettatore.

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Nel segmento che racconta la fuga di Peter (Will Smith) tra le paludi si percepisce infatti una costante sensazione di tensione e timore rispetto ad un destino tragico e violento che non solo sembra attenderlo ma anche e soprattutto non volersi arrestare mai, poiché portato avanti da un instancabile, silenziosissimo, folle e spietato cacciatore di taglie, Fassell, interpretato da un Ben Foster inquietantemente gelido e perciò spaventoso, accompagnato da due cani altrettanto temibili.

Fuqua però non ricalca le facili tracce incise nella memoria di qualsiasi spettatore cinematografico che ha amato il Django Unchained di Tarantino, aspettandosi quel modello di racconto sullo schiavismo e perciò quella lettura ironica, grottesca e anche lì spettacolare della fuga, della sparatoria e della violenza. Nient’affatto, Fuqua procede in tutt’altra direzione, filtrando il suo racconto di schiavismo americano di fine Ottocento, con la condizione altrettanto obbligata di fronte alla morte e al dolore del soldato, una figura di schiavo moderno e differente analizzata per anni all’interno del cinema di guerra (e non solo).

Ecco dunque che torna e rivive il Vietnam (come collocazione spaziale geografica e come condizione psicologica) di titoli cult come Il ponte sul fiume Kwai, Il cacciatore, Apocalypse Now, Rambo, Platoon, Vittime di guerra e L’alba della libertà, anche all’interno di Emancipation, il cui Bayou diviene foresta senza fine, colma di acquitrini, zanzare, insetti di ogni genere e bestie pericolose che si aggirano tra corsi d’acqua ed erba alta mettendo continuamente a rischio la fuga disperata ma inarrestabile di Peter, che ci ricorda ogni soldato raccontato nei titoli precedentemente citati.

Ad ogni modo, quello è un modello di cinema e ambientazione che Fuqua ben conosce fin dai tempi di L’ultima alba, uno dei suoi titoli più rapidamente dimenticati, nonostante fosse un semplice war movie d’intrattenimento, dalle scarse se non del tutto assenti pretese o ambizioni tematiche e narrative, giudicato dalla critica come profondamente banale e stereotipato.

Il lavoro sugli interpreti e i riferimenti cinematografici – Will Smith rincorre Stallone, Hanks, Gibson e Di Caprio sperando di far sua quella statuetta…

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Com’era facile aspettarsi però, nonostante l’ambientazione del film sia protagonista assoluta di ciò che accade, muta e si presenta dinanzi allo sguardo attento dello spettatore, è il lavoro sui toni e sugli interpreti a rendere Emancipation un ottimo film e perciò degno di interesse.

Antoine Fuqua, essendo regista capace di dirigere interpreti di alto livello indirizzandoli verso grandi riconoscimenti – non è da dimenticare il caso Denzel Washington per Training Day, così come quello di Richard Gere per Brooklyn’s Finest – non poteva che destare la curiosità e l’attenzione di Will Smith produttore e interprete in cerca di redenzione e ritorno al successo che in seguito ad un’iniziale fase di carriera e di grande rincorsa ai premi è sembrato aver subito un calo costante, fino al chiacchieratissimo episodio dello schiaffo ai danni del presentatore Chris Rock accaduto agli Oscar 2022 che si è rivelato capace di allontanarlo sempre più dalle grazie di Hollywood e poi dal suo pubblico una volta fan e ormai piuttosto distante.

Così come Tom Cruise inevitabilmente diviene regista e interprete principale dei titoli cui sceglie di prendere parte, figurando in definitiva come autore unico, anche Will Smith muove i suoi passi (o lo ha sempre fatto?) nella stessa direzione, tentando in ogni modo di essere il centro o focus d’attenzione di Emancipation, riempiendo con il suo corpo martoriato e il volto segnato da lacrime, sangue, rabbia o rassegnazione ogni inquadratura e situazione, fino a risultare eccessivo. Il lavoro che Smith ripercorre in termini di lavoro sul personaggio, dunque portata simbolica, fisicità ed espressività, è quello dello Stallone di Rambo, che incontra poco dopo l’Hanks di Forrest Gump e poi ancora il Mel Gibson di Braveheart e Il Patriota, fino al Di Caprio di The Revenant.

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Risultando dunque evidente la forte aspirazione di Smith rispetto alla corsa verso l’Oscar 2023, è inevitabile considerare quanto la prova interpretativa del suo antagonista all’interno di Emancipation sia decisamente superiore, ossia quella di Ben Foster, ormai abilissimo nella caratterizzazione dei personaggi negativi, che lavora qui di sottrazione, tra fischiettii sinistri, silenzi prolungati e sguardi glaciali, capaci di comunicare pericolo e violenza più di qualsiasi linea di dialogo.

Emancipation è in definitiva un ottimo film sulla sopravvivenza disperata, senza fine e costantemente travagliata se non addirittura sfiancante, di un uomo che ha perso tutto e che tutto vuol riacquistare. Sorprendono i toni così sinceri, potenti, feroci e nerissimi di un film che difficilmente ci si sarebbe potuti aspettare da un regista come Fuqua, mai così vicino al cinema di denuncia e al dramma sociale. Che sorpresa!

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 4
Recitazione - 3.5
Sonoro - 3.5
Emozione - 3.5

3.6