L’implacabile: recensione del film con Arnold Schwarzenegger

Recensione de L'implacabile (1987) con protagonista Arnold Schwarzenegger, clamoroso flop commerciale per l'epoca, ampiamente rivalutato nei decenni. L'implacabile ci trascina in un 2019 fatto di fake news e controllo mediatico, per una pellicola dal messaggio avanti anni-luce per la sua generazione.

Molti sono i casi di pellicole nella storia del cinema oggetto, più che di una rivalutazione, di un totale cambio di percezione del messaggio trasmesso. Uno dei casi più eclatanti è certamente Tetsuo (1989) diretto da Shinya Tsukamoto, dove se il body horror diventava funzionale a trattare il boom economico e la crescita tecnologica del Giappone degli anni Ottanta, oggi diventa invece espressione dell’esasperante rapporto dell’uomo con la tecnologia. Un processo molto simile è avvenuto con L’implacabile (1987) diretto da Paul Michael Glaser con Arnold Schwarzenegger come protagonista assoluto.

Tratto liberamente dal romanzo L’uomo in fuga (1982) di Stephen King – che lo pubblicò sotto lo pseudonimo di Richard Bachmann – L’implacabile fu un clamoroso insuccesso commerciale negli anni Ottanta, tanto che la presenza del granitico Schwarzenegger, all’apice della popolarità tra Conan il barbaro (1982), Terminator (1984), Commando (1985), Codice Magnum (1986) e Predator (1987) – non fu abbastanza a garantire alla pellicola il successo di critica e pubblico a cui avrebbe potuto auspicare.

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E gli ingredienti per ottenere un forte incasso al botteghino c’erano tutti. Schwarzenegger a parte, infatti, L’implacabile si inseriva nel filone dell’avventura fantascientifica dei vari Alien (1979), 1997: Fuga da New York (1981), Blade Runner (1982), Grosso guaio a Chinatown (1986) a partire dalla visione proposta dal soggetto letterario – un 2019 distopico (ma futuribile) nel quale il mondo è in preda a uno Stato di Polizia dove le masse venivano controllate tramite fake news e un programma televisivo tutto a base di violenza e morte. Roba che oggi sembra quasi l’attualità – seppur senza i toni esasperanti della pellicola dal chiaro stampo action – ma che nel 1987 non venne accolta di buon grado.

Il buon sottotesto alla base del racconto cinematografico de L’implacabile diventa di poco conto per l’audience del 1987 abituata a roba ben più impegnativa come i titoli sopracitati; le buone intenzioni dello script di King vengono così buttate giù a colpi di villain da b-movie (perlopiù wrestlers) e un programma televisivo – alla base – in fondo troppo assurdo per esser preso sul serio.

L’implacabile: Glaser, un regista televisivo alla guida di un progetto cinematografico

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Il principale problema alla base – che risulta evidente nel corso della visione – è la totale mancanza di una visione registica all’altezza. Glaser – che veniva da esperienze da show televisivi e che non sapeva nemmeno leggere le note di sceneggiatura – era infatti la sesta scelta dopo James Cameron (fortemente voluto da Schwarzenegger dopo il successo di Terminator ma non del tutto interessato), George P. Cosmatos, Carl Schenkel, Ferdinand Fairfax e Andrew Davis.

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Il risultato fu quindi modesto, perché in una produzione fantascientifica action, ma basata principalmente su un programma televisivo, si scelse proprio un regista di show televisivi per rendere il tutto credibile. La cosa però ottenne uno strano “effetto boomerang”, perché la presenza scenica di Richard Dawson – leggendario conduttore televisivo di Family Feud – fu uno degli assi nella manica de L’implacabile; tanto che secondo alcuni suoi stretti collaboratori, il Dawson privato era estremamente simile a Damon Killian.

L’implacabile: la trama del film

L'implacabile cinematographe.it L’implacabile ci fa immergere nell’ambiente narrativo di un distopico 2017 dove l”economia globale è collassata e gli Stati Uniti d’America sono diventati un regime totalitario che censura ogni attività culturale. Il Governo ha pacificato la popolazione mandando in televisione un programma in stile gladiatorio chiamato “Running Man“, guidato dal cinico Damon Killian (interpretato da Richard Dawson), dove dei carcerati (chiamati “Corridori”) vengono sottoposti a crudeli e disumane prove di sopravvivenza o a scontri sanguinolenti contro dei colorati serial killer professionisti (gli “Sterminatori”). Se sopravvivono e superano i quattro quadranti del gioco (ciascuno suddiviso in cento aree) entro tre ore, i vincitori vengono premiati con la libertà.

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Durante una pattuglia notturna sui cieli di Bakersfield al pilota militare Ben Richards (interpretato da Arnold Schwarzenegger) viene ordinato di sparare sulla folla che preme per avere cibo; rifiutando di eseguire gli ordini viene tramortito dai suoi stessi commilitoni e, a massacro avvenuto, gli viene data tutta la colpa della strage grazie ad un falso video montato ad arte che lo vede come unica mente ed autore dell’attacco. Diciotto mesi più tardi, nell’ottobre del 2019, Richards riesce ad evadere dal campo di lavoro forzato – sarà l’inizio di una moltitudine di problemi che lo porteranno alla partecipazione a Running Man.

L’implacabile: il 2019 di Glaser e King non è poi tanto diverso dal nostro

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Ci si erano avvicinati tantissimo il precedente Blade Runner (1982) con le sue atmosfere buie, oscure e le riflessioni sul rapporto uomo-macchina ma “senza aver previsto Internet” e il successivo Akira (1988) con la visione caotica e selvaggia della Neo-Tokyo di Otomo, ma anche L’implacabile non è stato da meno nel presentare la sua visione distopica – ma a posteriori molto futuribile –  del 2019.

Gli eventi alla base del racconto de L’implacabile partono proprio dall’ottobre del 2019, in un contesto narrativo nel quale le risorse naturali, cibo, acqua e carburante sono in riserva. Il sopracitato Stato di Polizia è diviso in zone paramilitari pronte a debellare qualunque forma di comunicazione e di tipo culturale. L’unico medium è la televisione in un’ottica Cronenberghiana degna di Videodrome (1983) controllata dallo Stato e volta a propinare continuamente violenza, programmi d’intrattenimento e fake news nei propri palinsesti, distogliendo così il cittadino dall’attenzione ai veri problemi che lo circondano come la limitazioni delle sue libertà personali, la censura e i propri diritti fondamentali.

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Un’azione populista che certamente – escludendo i metodi coercitivi da squadroni della morte dei gladiatori “high-tech” – si avvicina molto alla nostra visione del 2019; ciò che L’implacabile non era riuscito a prevedere, come buona parte delle pellicole degli anni Ottanta, era l’avvento di Internet e dei device convergenti, ma – ed è questa la vera forza del racconto di King a discapito di alcuni difetti di realizzazione -, il messaggio e i contenuti de L’implacabile del 1987, sono tremendamente vicini al nostro 2019.
La comunicazione magari non è stata espressamente soppressa nel nostro 2019 così come avvenuto in quello Kinghiano, ma viviamo in un mondo dove sin dalle alte sfere, la cultura viene vista con diffidenza, ritenuta “pericolosa” e per questo sminuita.

L’implacabile: una regia e uno sviluppo non all’altezza del potenziale del film

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Un racconto dal concept che configura una riflessione voyeuristica sul ruolo dei media a metà tra Quinto potere (1976) e 1984 di George Orwell del 1949, decisamente avanti anni-luce più di molte altre pellicole maggiormente acclamate dalla critica, ma che risulta prevedibile nel suo sviluppo e nelle svolte narrative. Non basta quindi uno Schwarzenegger-action degno del miglior Commando e del suo repertorio di battute sferzanti, qualcosa sembra non quadrare fino in fondo.

La regia di Glaser, come dicevamo precedentemente, non è all’altezza del materiale narrativo; manca una visione d’insieme e una mano registica degna di quel James Cameron prima scelta dei produttori o di un Paul Verhoeven – come con Atto di forza (1990) – che con un prodotto simile avrebbero potuto realizzare qualcosa di molto vicino al capolavoro.

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L’implacabile deve così accontentarsi di una dimensione da mero guilty pleasure, per una regia spenta e poco ispirata, volta a valorizzare più l’aspetto dello show televisivo, che non la componente action; che per un racconto cinematografico con protagonista un granitico Schwarzenegger è un autogol di non poco conto.
Il tutto, aggravato da effettivi problemi di scrittura, come una co-protagonista quasi irrilevante in termini narrativi come la Amber Mendez di Maria Conchita Alonso, ma essenziale nel mostrare allo spettatore la verità sugli eventi di cui è accusato Richards, e sub-villain di molto poco conto dal punto di vista scenico, interpretatati dagli ex-wrestlers Jesse Ventura, Charlie Kalani Jr, Erland Van Lidth, e l’ex giocatore di football Jim Brown.

Il vero villain è certamente il Damon Killian di Richard Dawson, ma la sua natura narrativa non nasce da un’effettiva azione malvagia, Killian agisce principalmente per interesse degli indici d’ascolto, risultando complice del sistema totalitaristico in cui Running Man vive e prospera. Un villain per certi versi quindi depotenziato – così come i sub-villain del resto – espedienti utili per far emergere la natura benevola e la fisicità stratosferica del Ben Richards di Schwarzenegger.

L’implacabile: un autentico cult movie da riscoprire

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Lucine al led, cattivoni dai nomi da battaglia improbabili come Captain Freedom e Buzzsaw che sembrano usciti da un cinecomic di serie B, un presentatore tv sadico, la colonna sonora electro-pop di Harold Faltermeyer e Schwarzenegger semi-indistruttibile al massimo della forma – tutti ingredienti che potrebbero quasi far sorridere a un prima visione de L’implacabile.

Ma la vera forza – ciò che rende L’implacabile una pellicola d’indubbio valore cinematografico – è la sua preminente componente sottotestuale che nel 1987 riusciva a guardare al 2019 con molta più scioltezza e precisione rispetto a pellicole come Blade Runner e Akira, ben più influenti e conclamate nell’immaginario collettivo – per una pellicola da riscoprire assolutamente.

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 4.5
Fotografia - 2
Recitazione - 2.5
Sonoro - 3
Emozione - 3.5

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