Roma FF18 – The Royal Hotel: recensione del film di Kitty Green
Una delle voci più interessanti del cinema australiano è tornata e dopo l’ottimo The Assistant, raggiunge le profondità della sua terra, per raccontare violenze, psicologismi e desiderio di riscatto del femminile, guardando a Peckinpah, Kotcheff, Roeg e Connolly, in un film necessario e pulsante di rabbia, con uno straordinario Hugo Weaving. Grand Public
Presentato in anteprima mondiale alla 50a edizione del Telluride Film Festival e approdato in seguito alla 18a edizione della Festa del Cinema di Roma nella sezione Grand Public, The Royal Hotel, il secondo lungometraggio da regista di Kitty Green, dopo le due ottime parentesi documentaristiche, Ukraine is not a Brothel e Casting JonBenet, torna a concentrarsi sulle dinamiche di genere, raggiungendo gli angoli più bui e i territori più desolati della patria di Green, tra cinema di denuncia e thriller a tinte horror che guarda a maestri quali Kotcheff, Roeg e Peckinpah e a nuovi autori, primo tra tutti Robert Connolly.
Una legge non scritta regola le dinamiche di terrore e di giustizia nei territori desolati e per questo realmente spaventosi dell’outback australiano nel fortunato franchise di Greg McLean, Wolf Creek, nel quale il sadico assassino di backpackers, Mick Taylor (uno straordinario John Jarratt) se ne va in giro ad inseguire, torturare e uccidere qualsiasi turista egli incontri sulla sua strada, senza di fatto subire alcuna punizione, tanto da parte della giustizia, quanto della popolazione locale.
Nessuno intende fare alcunché e John è libero di uccidere. Così funziona nell’outback. La stessa desolazione, aridità e spietatezza di quella terra dimostra d’altronde quanto semplice sia incappare in qualche pericolo, o altrimenti nella morte, godendo di limitatissime speranze di salvezza. Insomma, se ti perdi, sei perduto.
Sulla medesima traccia tematica, ancor più disperatamente riflettono Ted Kotcheff e Nicolas Roeg, attraverso i rispetti Wake in Fright e Walkabout, mostrando un’Australia terra di pochi, molto spesso violenti, se non addirittura finiti, al punto tale da mutare in carnefici, poiché ben consapevoli dell’assenza della legge, del controllo e dell’ordine sociale.
Kitty Green, una delle voci più interessanti del panorama cinematografico australiano, piuttosto a sorpresa, cala il racconto profondamente adulto, violento, angosciante e disperato del suo secondo lungometraggio da regista proprio in quell’Australia abbandonata a sé stessa, precedentemente mostrata dagli autori citati.
Kitty Green tra Peckinpah e Connolly. Le dinamiche di genere nelle terre di nessuno
Ancora una volta il focus è sulle dinamiche di genere, dopo l’ottimo The Assistant, che già virava in direzione di un cinema di finzione evidentemente segnato dal sociale e da un’attualità sempre più violenta e spaventosa, in riferimento a tematiche quali l’abuso sul luogo di lavoro e il mobbing.
The Royal Hotel, attraverso il racconto della folle e traumatica esperienza delle giovani turiste americane, Hanna (Julia Garner) e Liv (Jessica Henwick), giunte nell’outback poiché a corto di soldi e alla disperata ricerca di lavoro, tanto da accettare un posto da bariste in uno scalcinato e mal frequentato diner nel bel mezzo del deserto, si riallaccia fin da subito a tale riflessione, mettendo in luce fin da subito, tensioni e violenze e con esse, una vera e propria forma di terrore latente, che cresce sempre più, fino ad esplodere.
I modelli di riferimento della Green sono chiari, ogni inquadratura di The Royal Hotel, dalla più insignificante, a quella più decisiva, grida a gran voce il cinema di Sam Peckinpah, richiamando soprattutto atmosfere e struttura narrativo/interpretativa di Cane di paglia, cult senza tempo che rispecchia la medesima angoscia orrendamente priva di potenziali difese, vissuta da Hanna e Liv ed è sorprendente quanto la prova di Julia Garner faccia propria il logoramento e così anche la disperazione e la rabbia del Dustin Hoffman del film di Peckinpah.
Inizialmente vigili rispetto a molestie, attenzioni non desiderate e vere e proprie aggressioni, le due protagoniste di The Royal Hotel, risultano in definitiva estremamente vulnerabili, ancora una volta a causa della natura stesso del luogo in cui si trovano, l’outback solitario, privo di controllo, nel quale il deserto, pur offrendo ampie e apparentemente sterminate vie di fuga, altro non fa che limitarne ulteriormente la possibilità di salvezza, fino a cancellarla del tutto. O forse no?
In questo senso, il film di Green riscopre il recente e piuttosto riuscito dramma a tinte thriller, Chi è senza peccato di Robert Connolly, che nell’adattare per lo schermo cinematografico, un’autrice australiana per eccellenza, quale è Jane Harper, che attraverso i suoi numerosissimi romanzi da molti anni a questa parte racconta oscurità, pericoli e violenze di quelle terre al mondo intero, riflette, così come Connolly, sulla questione dell’aridità, che non è solamente di luogo, ma anche e soprattutto di anima, capace dunque di corromperla, mutando il bene, in male, conducendola alla disperazione.
The Royal Hotel: valutazione e conclusione
Il secondo lungometraggio di Kitty Green è un feroce trattato sul tema oggi attuale più che mai degli effetti e conseguenze delle violenze, degli abusi, delle ambiguità, perciò del desiderio di riscatto del femminile, negli ambienti di lavoro.
Muovendosi abilmente tra cinema di denuncia sociale, thriller, horror – seppur limitato a brevissime sequenze – e dramma, The Royal Hotel evidenzia, fin dalle primissime inquadrature, un’impronta autoriale personale e decisiva, che d’altronde già The Assistant metteva in luce, dimostrando quanto Kitty Green potesse effettivamente rappresentare per il panorama cinematografico internazionale, cioè una voce solida, adulta e sorprendentemente legata ai maestri di un’epoca passata che rivivono nel suo cinema, senza mai svanire. Ora ne abbiamo la conferma.
Vale la visione una prova lacerante e straordinaria di Hugo Weaving.