Monkey Man: recensione del film di Dev Patel

L’esordio alla regia di Dev Patel guarda a John Wick, The Raid, Il Corvo e Bruce Lee, senza tuttavia dimenticare inevitabili riferimenti Tarantiniani, rintracciando una propria stilistica ed impronta, dapprima fisica ed in seguito autoriale, nelle profondità della narrazione mitologica induista, che tra quotidiano e tramandato, modella miti, leggende di sorprende ferocia e spiritualità. Monkey Man è in sala da giovedì 4 aprile, distribuzione a cura di Universal Pictures Italia

Kid ha le mani rovinate, fiamme di un passato lontano, anche se mai abbastanza, le hanno marchiate per sempre, eppure nonostante il danno il ragazzo le usa bene. Da un lato il lavoro da cameriere, dall’altro quello del vendicatore solitario, che in definitiva così solitario non è, considerato l’incessante appellarsi dello stesso a quella madre patria induista che dai templi dimenticati e sotterranei lentamente risorge, risollevandosi di fatto, accompagnando Kid, quel Monkey Man che da  antica leggenda si fa realtà, nascendo nei più squallidi fight cub di Mumbai, alla più che meritata vendetta, tra furia cieca, spargimenti di sangue e apparente immortalità.

Il milionario che ora cerca vendetta

Trattandosi dell’esordio registico del giovane milionario Dev Patel, si fa per dire, tornando con la memoria a quel The Millionaire di Danny Boyle che un po’ convinse e un po’ deluse, osserviamo qui una maturità di sguardo e di utilizzo del corpo e volto scenico, filtrato in chiave action, fumettistica e talvolta perfino ai limiti dell’horror – non sorprende la presenza di Jordan Peele in produzione – realmente sorprendente, che molto deve ad una certa eleganza action, generata tanto dal John Wick di Reeves/Stahelski, quanto dal ben più rude e sfrenato cinema di Gareth Evans. Non è affatto escluso, anzi certo, che lo stesso Patel non si sia visto a ripetizione The Raid saga, prendendo a piene mani qua e là, rintracciando infine una propria impronta personale, modellando ciò che oggi è giunto fino a noi, Monkey Man, il cui principale sottotitolo potrebbe essere: una storia d’amore e di vendetta.

Patel svestiti i panni dapprima logori ed in seguito inevitabilmente ripuliti del milionario in fuga dalla povertà dell’India offerti da Boyle, così come quelli del cavaliere errante, solitario e piuttosto annoiato, forzatamente indossati dallo stesso per quel più che dimenticabile Sir Gawain e il Cavaliere Verde di David Lowery, si pone dietro e davanti la macchina da presa, costruendosi un personaggio dalla grande ambiguità e dall’evidente ferocia, seppur inespressa, dunque silenziosamente e rabbiosamente celata, che nella prima ora di Monkey Man tutto ci appare fuorché un eroe nazionale, ma che in seguito, lentamente – si fa per dire, nonostante le due ore di durata di tanto in tanto si facciano sentire – si trasforma, mutando in leggenda e poi in corpo martoriato eppure solidissimo che tutto sopporta, dalle botte alle pallottole, fino alle fiamme e alle violenze d’ogni sorta, resistendo al mondo e a sé stesso, fino al raggiungimento di quella vendetta eternamente desiderata.

Monkey Man; cinematographe.it

Monkey Man: valutazione e conclusione

Così come molte opere prime e ancor più trattandosi di cinema action, Monkey Man dichiara fin da subito i propri riferimenti cinematografici e tematici e così intenti stilistico/narrativi, correndo il rischio d’assumersi fin troppe responsabilità, inevitabile da qui la necessità dello stesso Patel, autore per la primissima volta e non più soltanto interprete, di voler gettare carne al fuoco in abbondanza, senza tuttavia possedere la certezza di saperla trattare correttamente. È dunque il caso di dirlo, tutto qui procede e funziona a dovere e nonostante una quantità in eccesso di tematiche e intenti inaspettatamente sociali, verrebbe da dire da vero e proprio cinema di denuncia – drammatici flashback narrativi, cedono presto spazio a frammenti televisivi di quotidiana tragicità -, l’esordio dietro la macchina da presa di Patel convince e intrattiene, mescolando stili e registri, basti pensare alla scelta della dinamica action vissuta dallo spettatore sia in prima, che in terza persona, soddisfando ogni potenziale aspettativa, specialmente in termini d’adrenalina e spargimenti di sangue, elementi essenziali per il genere di riferimento.

Bruce Lee, uno dei molti miti di Dev Patel, rivive tra le sequenze di Monkey Man e non è mai stato così violento, folle e furioso, tanto da condurci ben presto ad un altro iconico personaggio ferocemente dark, cupo e assetato di vendetta, interpretato tra l’altro, dal figlio dello stesso Bruce, Brandon, ossia l’Eric Draven de Il corvo di Alex Proyas. La sensazione è quella d’assistere ad un action colmo di cupissime atmosfere Tarantiniane – torniamo con la memoria a Kill Bill più e più volte – e successivamente proprie della stilistica elegante e videoludica dell’universo di John Wick, spezzate entrambe dalle brutalità e così dalle sanguinose ed esplosive violenze dei due capitoli di The Raid che Patel osserva e modella secondo un gusto autoriale dalla sorprendente carica umoristica, capace di condurre lo spettatore, lungo una corsa sfrenata, sporca e di grande intrattenimento, convincendolo in definitiva d’aver raramente visto in precedenza qualcosa di simile.

Un primo capitolo che costruisce un mondo e così una mitologia profondamente radicata in un contesto più che personale per lo stesso Patel e che in qualità di spettatori inevitabilmente conquistati da tale maturità, non vediamo l’ora di rivedere. Porte aperte per un sequel? Lo scoprirete al cinema.
Monkey Man è in sala a partire da giovedì 4 aprile 2024, distribuzione a cura di Universal Pictures Italia.

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4
Recitazione - 4
Sonoro - 4
Emozione - 4

4