Holy Spider: recensione del film di Ali Abbasi

“Ogni uomo incontrerà quel che desidera evitare”, con queste parole che si fanno fin da subito monito implacabile, nei confronti dei protagonisti del film e dello spettatore – ormai prossimo all’osservazione e conoscenza diretta di vicoli, abitazioni e palazzi delle istituzioni della Mashhad feroce, oscura, tensiva e claustrofobica tenuta sotto scacco da Saeed Hanaei nei primi anni del duemila – ha inizio Holy Spider, il terzo film da regista di Ali Abbasi, interessante autore iraniano che dopo l’horror Shelley (2016) e la parentesi drammatico/folkloristica di Border – Creature di confine (2018), profondamente calata nell’immaginario svedese dark di John Ajvide Lindqvist, approda al thriller, lasciando la Danimarca, luogo in cui Abbasi vive e lavora ormai da anni, tornando in Iran per raccontare, seppur romanzando, i reali e spaventosi omicidi del serial killer Saeed Hanaei.

Il pericolo d’essere donna, tra cinema documentaristico e horror

Holy Spider - Cinematographe.it

Holy Spider fin dalle prime sequenze coinvolge lo spettatore nel sopravvivere e peregrinare disperato, tossico, rassegnato e perseguitato di una prostituta come tante di Mashhad, che nel cuore della notte lascia il figlioletto solo a casa, per raggiungere le abitazioni e poi i veicoli di squallidi uomini sconosciuti che approfittandosi della sua situazione la coinvolgono in prestazioni sessuali feroci, sottopagate e violente, facendo uso del suo corpo come fosse un oggetto, che se nel cuore della notte appare eccitante e proibito, alla luce del giorno diviene invece repellente, perverso, sporco e immorale.

Abbasi mostrando le ecchimosi della donna, nel suo specchiarsi nuda e invisibile a sé stessa durante la preparazione casalinga per un nuovo turno notturno sulle strade di Mashhad, racconta senza l’uso alcuno di dialoghi e parole, il dramma e la tragicità della condizione fisica e psicologica alienante, discriminante ed incredibilmente pericolosa vissuta e subita dalle prostitute – e più in generale dalle donne – nell’Iran di quegli anni, attraverso una lente cinematografica potente, oscura e immediata che si pone a metà strada tra reportage d’inchiesta, opera documentaristica, cinema horror e dramma.

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Purtroppo – o per fortuna, considerata la tensione e la ferocia degli accadimenti – superati i primi dieci minuti di film, non ci è concesso osservare ancora le dinamiche di vita della giovane prostituta con la quale Holy Spider ha inizio, poiché il suo destino è segnato fin da subito. Lo si percepisce dal modo in cui Abbasi sceglie di filmarla, a partire dalle primissime inquadrature, mostrandola quasi sempre di spalle, come a dare l’indicazione di una presenza temibile – e temuta – che resta in attesa e in agguato tra gli angoli bui e gli interni auto – altrettanto oscuri – delle strade che la donna ogni notte è costretta a frequentare pur di sostenere la propria famiglia, incurante del fatto di poter essere di volta in volta una potenziale vittima del tanto chiacchierato caso “Spider Murders”.

Appena dopo la scomparsa della donna, però prende il suo posto sullo schermo un’altra figura femminile, la cronista Rahimi, interpretata da una granitica e solidissima Zar Amir Ebrahimi, ruolo che le è valso il Prix d’interprétation féminine al Festival di Cannes 2022. Così com’era evidente fin da subito il tragico destino della prostituta, quello della sparizione violenta, appare altrettanto evidente il protagonismo di Rahimi, quello che inevitabilmente detterà sviluppi e risoluzioni nel corso del film, consegnando a sé stessa e poi allo spettatore una soddisfazione probabilmente parziale, ma non per questo insoddisfacente.

Uomini che odiano le donne, un gioco malato di potere e dominazione

Abbasi dimostrando immediatamente la determinazione, così come la sorprendente sicurezza di Rahimi nell’affrontare gli uomini che invano uno dopo l’altro tentano di allontanarla e farla desistere rispetto alla sua presenza lì, la filma ponendo la macchina da presa dinanzi al suo volto e corpo – non più alle spalle -, come a voler proporre fin da subito, senza filtri o accorgimenti, l’incontro e scontro diretto tanto tra Rahimi e il serial killer, quanto tra Rahimi e il pubblico, mostrandone ogni ombra, spigolo, paura, e coraggio, e privandola perciò di potenziali zone d’ombra dallo svelamento successivo, mettendola a nudo rispetto alla sua natura e desiderio, ossia, la cattura di Saeed e dimostrazione delle proprie capacità, pur essendo donna nel contesto geografico e temporale probabilmente meno opportuno per esserlo.

È interessante osservare il lavoro che Abbasi compie registicamente parlando – e non – rispetto alle figure femminili del film che si rivelano talvolta indifese e talvolta combattive, ma pur sempre in maggioranza e simbolicamente predominanti rispetto alle figure maschili che risultano in qualche modo schiacciate e messe all’angolo, perciò convinte di dover generare odio nei confronti del sesso opposto, pur di dimostrare e comunicare controllo e dominazione.

Basti pensare alla sequenza di grande tensione all’interno di una stanza d’hotel che vede coinvolti Rahimi ed un giovane ufficiale di polizia, piuttosto che quella in cui Fatima Hanaei (Forouzan Jamshidnejad), moglie silenziosa ma non per questo indifesa del killer Saeed (Mehdi Bajestani) cerca di riportare ordine nella propria famiglia e nel proprio matrimonio usando il sesso come arma e “merce di scambio”. Quella stessa merce per la quale Saeed uccide, in nome di “una crociata personale per amore di Dio e per la tutela della religione’’.

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Holy Spider così come Shelley e Border racconta e mostra la donna come figura capace di condurre la propria vita forte di libertà, indipendenza, coraggio, imprudenza, doti risolutive, trasgressioni, scoperta della propria identità nonostante il contesto sociale e il giudizio altrui, spigolosità e consapevolezza del pericolo, inevitabilmente presente nella società, ma non per questo limitante.

Abbasi però, laddove mostrava la donna libera di essere tutto ciò, poiché priva di ostacoli – almeno apparentemente -, la pone qui in contrasto con la figura probabilmente più corretta dal punto di vista narrativo, l’antagonista più logicamente corrispondente: l’uomo che odia le donne e che le vorrebbe all’angolo, o più probabilmente del tutto inesistenti.

Ali Abbasi e l’idea di un cinema contaminato e incredibilmente personale

Osservando un film come Holy Spider si ha chiara l’idea di una volontà autoriale non soltanto estremamente riconoscibile e personale, ma anche il connubio se non perfetto, ottimamente riuscito, tra cinema d’autore e cinema commerciale che guarda tanto al modello Hollywoodiano dell’indagine e della caccia all’uomo in chiave thriller/horror, con tanto di inchiesta giornalistica alla Zodiac (i riferimenti al film di Fincher sono piuttosto evidenti), quanto al modello invece più prettamente metaforico, sospeso e simbolico di autori quali Abbas Kiarostami, Asghar Farhadi, o ancora Mohammad Rasoulof, Nuri Bilge Ceylan e Ana Lily Amirpour.

Abbasi però dimostrando grande conoscenza e vicinanza rispetto ad un certo modello di cinema americano recente e non, sempre più dalle parti del thriller psicologico e dell’horror, mette da parte le spinte autoriali, generando e modellando la paura servendosi dell’oscurità, dello spazio labirintico e claustrofobico al tempo stesso, seppur aperto e potenzialmente sconfinato come può essere la sua Mashhad notturna e spaventosa poiché incontrollata e tenuta sotto scacco da un male ambiguo, forse prodotto o in alternativa protetto e legittimato dalle stesse figure o istituzioni che la governano. D’altronde l’oscurità si lega a paure ancestrali e la si ritrova continuamente nel cinema horror, anche se più di rado nel thriller, ormai esposto alla luce del sole.

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Ciò che più colpisce, attrae e spaventa di Holy Spider è proprio questo, il racconto di un male oscuro, scioccante, temibile, feroce e crudo che appare come tollerato – o tollerabile – agli occhi di un popolo in definitiva soggiogato da un credo ormai antico, discriminante e retrogrado, che se cancella quel male per scopi politici, lo rimpiazza subito dopo per scopi sociali, subendolo eternamente e privando di qualsiasi sicurezza le sue potenziali vittime. Il male che Ali Abbasi filma agisce nell’ombra, mostrandone però i suoi frutti alla luce, è perciò inarrestabile e in continuo mutamento, così come testimoniano le parole del filmato amatoriale che chiude il film, quello raffigurante Ali Hanaei (Mesbah Taleb), figlio del serial killer Saeed che tra un sorriso e l’altro dice a favor di camera: “Molte persone mi chiedono di continuare l’opera di mio padre…aspettiamo e vediamo”.

Holy Spider è un grande film, scritto e diretto da un altrettanto grande personalità registica, Ali Abbasi, un autore destinato ormai a far parlare di sé a livello globale, avendo oltretutto preso parte alla sempre più lodata e glorificata trasposizione seriale ad opera di HBO dell’omonimo capolavoro videoludico The Last Of Us.

Presentato in anteprima il 22 maggio 2022 in concorso al 75º Festival di Cannes, Holy Spider sarà distribuito nelle sale cinematografiche italiane da Academy Two a partire dal 16 febbraio 2023.

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4
Recitazione - 4
Sonoro - 4
Emozione - 4

4

Fonte: La recensione di Holy Spider, film thriller/horror di Ali Abbasi, ispirato ai casi del killer ragno realmente accaduti a Mashhad nel 2001