Sto pensando di finirla qui: recensione del film Netflix di Charlie Kaufman

Il nuovo bellissimo lavoro di Charlie Kaufman prodotto da Netflix, simbolo di un cinema da preservare, sorprendente e libero dalle convenzioni del panorama odierno.

Charlie Kaufman è un patrimonio da preservare, eppure si è rischiato di perderlo, vittima delle logiche della grande macchina del cinema americano. Ora la sua agenda è di nuovo ricca di progetti, dal cinema ai libri, e Sto pensando di finirla qui (I’m Thinking of Ending Things), dal 4 settembre su Netflix, è la prova di quanto sia importante averlo ancora con noi.

A 5 anni dallo splendido Anomalisa il tormentato genietto newyorkese torna sulla scena con l’adattamento omonimo del libro di Ian Reid (in Italia edito Rizzoli), compiendo la prima di una lunga serie di scelte ispiratissime a cui si aggiunge quella degli attori (non ce ne vorrà Brie Larson), del direttore della fotografia Łukasz Żal (Cold War) e del montatore Robert Frazen, eccezionale.

Un raggio di luce in un anno terribile per tutti, sorprendente, appagante e libero dalle convenzioni, non ultima quella che vede nei giganti dello streaming i boia del cinema. Chiedete ad un’altra casa di produzione che non sia Netflix se sarebbe stata disposta a sobbarcarsi un progetto simile, viste le incognite per un piazzamento nel mercato attuale e le premesse da cui si partiva a lavorare. Difficilmente troverete una risposta positiva.

Sto pensando di finirla qui: tornare a casa è terribile

Sto pensando di finirla qui, cinematographe.it

Come in Synecdoche, New York, partiamo tranquilli. In entrambi i film siamo accolti da una voce fuori campo (qui molto più importante e presente, quasi ai livelli de Il ladro di orchidee) e, escluso qualche simbolico indizio, abbiamo l’impressione di avere a che fare con una narrazione lineare o quanto meno comprensibile.

Lei (Jessie Buckley) è la fidanzata di Jake (Jesse Plemons) ormai da qualche settimana (6 o 7, meglio 7), anche se le sembra molto di più, e sta andando a conoscere i genitori di lui  (Toni Collette e David Thewlis) nella loro casa di campagna, ma non vorrebbe essere lì. La sua preoccupazione nell’elencare a se stessa tutti i pregi del suo Jake è pari solamente all’impossibilità di smettere di ripetere “sto pensando di finirla qui“. Lei sà già che il loro rapporto non ha futuro, eppure è spinta da un sentimento che identifica come curiosità. Contraddizioni del cuore, come quelle che dominano il loro viaggio in macchina in mezzo allo sterminato paesaggio innevato. Una guerra fredda tra amanti, combattuta in un alone passivo/aggressivo che nel linguaggio kaufmaniano (orribile, scusate) si traduce in una gara di citazioni e conoscenze reciproche in mezzo a lunghe poesie e soliloqui sulle relazioni e sulla vita.

Siamo nel campo della commedia drammatica, anche se si avverte una punta di tensione, data soprattutto dalla figura di Jake. Il ragazzo che si sente invisibile, ma nota tutti gli altri, che ama il musical, ma ne ricorda solo il lato oscuro, che vuole dare l’idea di essere un figlio affettuoso eppure non ne è mai del tutto convinto, che sembra riuscire a sentire quello che pensa lei, eppure non fino in fondo.

Sto pensando di finirla qui, cinematographe.it

Poi arriviamo alla casa. Una casa con un buco sotto, uno scantinato non finito con dei graffi bestiali sulla porta. Teatro minaccioso e orrorifico, lugubre e triste, dove le pecore muoiono assiderate e i maiali sono pieni di vermi. A lei ricorda il posto dove è vissuta, dice, forse perché ne assume in qualche modo le fattezze, oppure perché sembra essere lei, almeno all’inizio, a decidere come deve apparire quello che vede, dal cane agli stessi genitori di lui, come fa nei suoi quadri. A Jake questo non piace. I suoi litigano e lui non si trova a suo agio. Dunque reagisce, come se la guerra continuasse ancora, ma spostandosi su un piano diverso da quello verbale e assumendo dei connotati onirici. Quelli della dimensione in cui si svolgerà il nuovo corso del viaggio dei giovani.

Qui il film comincia rivelare piano piano una natura diversa, lasciando uno spazio allo spettatore accanto ai suoi protagonisti, invitandolo ad accomodarcisi o suggerendo che c’è qualcun altro di importante da tenere in considerazione. Per esempio, chi è quel vecchio bidello che vediamo ogni tanto apparire sullo schermo?

Non puoi fingere un pensiero

Sto pensando di finirla qui, cinematographe.it

La poetica di Charlie Kaufman ruota intorno alle sue ossessioni. Fondamentalmente, la morte, o meglio il pensiero della fine, “l’uomo è l’unico animale ad essere consapevole della sua morte” ci dice “per questo ha inventato la speranza“, e i rimpianti, “come sarebbe andata se?“, tema principe di Se mi lasci ti cancello. La funzione che assume per lui il medium cinematografico è al servizio di questa indagine psicologica, al cui surrealismo visivo più sfrenato si somma l’iperverbosità non solo dei dialoghi, ma anche dei ragionamenti mentali dei suoi personaggi.

Caratteristiche esaltate più che mai in Sto pensando di finirla qui, dove è da subito chiaro come siano i pensieri (ma i pensieri di chi?) a dare forma a quello a cui assistiamo, assumendo dunque un’importanza ben più grande delle parole o delle azioni stesse. Lei, la Lei senza nome chiamata in tanti modi, bellissima e bravissima, è fulcro e prospettiva della storia, ma lo è come lo siamo noi. A lungo andare vittima confusa, ma mai troppo spaventata, dell’ermetico susseguirsi degli eventi scomodi e disturbanti, che suo malgrado la coinvolgono. Sembra quasi scomparire a volte, prigioniera della mente altrui, ma rimane sempre oggetto del desiderio e vettore dell’esplorazione delle mille vite che avrebbero potuto essere, messe in dubbio solo dai suoi pensieri ribelli.

I tratti sovrannaturali e molto più oscuri rispetto ai soliti canoni di Kaufman riempiono l’aria di una foresta di lynchiana memoria così fitta di simbolismi da rendere impossibile quanto fuorviante un percorso che preveda uno smantellamento singolo di ognuno di loro, in quanto è nella loro funzione collettiva che assumono un peso reale nel concept della storia e diventano parte del registro con cui è raccontata.

David Thewlis e Jessie Buckley, cinematographe.it

In Sto pensando di finirla qui il tempo si dilata (il film dura 144 minuti che sembrano 200) fin dall’arrivo alla casa, stordendo lo spettatore, i flussi di coscienza diventano sempre più cervellotici, deliranti e suggestivi (clamorosa la scena in cui praticamente viene fatta una recensione di Una moglie di John Cassavetes), il formato in 4:3 comincia ad essere sempre più claustrofobicamente pressante, uscendo fuori quasi in contemporanea con la deflagrazione nevrotica di Plemons, straordinario in questo film più che in ogni altro nel suo lavoro di sottrazione nell’interpretazione del ruolo.

Tutti tasselli che ci accompagnano ad un finale chiarificatore per chi vuole vedere, diverso da quello del libro ed eccezionale, nel senso etimologico del termine, se comparato a ciò che si vede adesso nelle sale e nelle nostre case. Ancora più eccentrico, ancora più surreale e ancora più ardito rispetto alle precedenti prove di Kaufman e con un geniale richiamo ad un classico del cinema americano.

L’universalità nella specificità

Sto pensando di finirla qui, cinematographe.it

Immaginando una vita che non abbiamo mai vissuto godiamo improvvisamente di una libertà impossibile da ottenere in altro modo. Non saremmo quindi mai in grado di comandarla o imbrigliarla verso una direzione specifica senza pensare di tornare indietro. Ci capita di avere un punto fisso, dato per scontato, ma non passerà mai molto tempo prima di cedere alla tentazione di migliorarlo per soddisfare i nostri desideri o, più comprensibilmente, di modificarlo per renderlo più attuabile. Creare un’alternativa più vicina al possibile per accettare più facilmente di fantasticarci.

Quando ci si guarda indietro è facile pensare che i nostri rimpianti siano diversi da quelli di tutti gli altri. A sentir noi nessuno ci può capire, nessuno può avere un dolore comune al nostro, ma in realtà le logiche che ci muovono in questo nostro mondo interno seguono delle regole per lo più comuni a tutti quanti.

Charlie Kaufman, come autore, ha l’ambizione di utilizzare il cinema per farci sentire compresi o, almeno, non più soli. Un modo per smettere di essere quelli smarriti nella folla o quelli isolati dal resto del gruppo. Il male dell’essere outsider è incurabile se lasciato crescere troppo, Sto pensando di finirla qui è terribilmente preciso su questo, e la sua ricetta, come tanti dei significati delle sue allegorie e dei suoi simbolismi, è nascosta in bella vista.

Il segreto dell’arte è convincere lo spettatore che una cosa sia stata scritta appositamente per lui, anche se in realtà non è così.

Regia - 3
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 3.5
Recitazione - 4
Sonoro - 3
Emozione - 4

3.6

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