Todd Haynes e i suoi film: un mondo di libertà, solitudine, diversità

Il mondo di Todd Haynes attraverso una filmografia non molto massiccia ma concentrata, mai volgare o sopra le righe; una poetica pellicolare che è un inno alla libertà personale, sessuale, familiare.

Si è trattato di uno dei film meglio accolti dalla critica e dal pubblico all’ultimo Festival di Cannes. Candidato alla Palma D’Oro e in corsa per tre Saturn Awards, La Stanza delle Meraviglie è solo l’ennesima prova del talento, della sensibilità e maestria di un regista che, per quanto non abbia all’attivo un grande numero di pellicole, non sbaglia mai un colpo e riesce sempre a stupire, pur rimanendo fedele a se stesso e alla propria identità: Todd Haynes.

Todd Haynes e quella volta che fu accusato di blasfemia e immoralità per il film Poison

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Leggi la recensione di Poison, il primo film di Todd Haynes

Nato fuori Los Angeles nel 1961, Todd Haynes ha cominciato con piccoli cortometraggi a metà degli anni ’80, facendosi subito notare per fantasia ed eccentricità, per poi debuttare con il suo primo film nel 1991, intitolato Poison (1991). Fin da subito Haynes mostrò alcune tematiche a lui care: l’omosessualità, la decostruzione dei capisaldi della bigotta e ipocrita società americana e del concetto di famiglia, la tematica della diversità e dell’intolleranza. Il film fu aspramente criticato da molte personalità religiose, che accusarono il regista di blasfemia e immoralità. Tuttavia proprio tale polemica aiutò il regista a pubblicizzarlo meglio e a farsi notare, avvantaggiandolo notevolmente nel suo percorso professionale.

Todd Haynes e il suo secondo film, Safe: un quadro desolante della società post-moderna

Di lì a poco avrebbe diretto per la prima volta Julianne Moore in Safe (1995), dove Todd Haynes si scagliò con ferocia contro il presuntuoso e vanaglorioso mondo della New Age, una sorta di religione alternativa che tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 era diventata qualcosa di assolutamente incontrollato, dando via a quella ramificazione di teorie bislacche e senza fondamento che oggi definiamo “medicina alternativa”. Però il film, alla base, parlava anche dell’orrendo dramma dei malati di AIDS, che proprio in quel periodo erano saliti alla ribalta mondiale per l’espandersi della malattia in modo incontrollato e per il terrore che essa suscitava nelle masse. In ultima analisi, Safe era in tutto e per tutto un quadro desolante dell’epoca post-moderna, caratterizzata agli occhi di Haynes da un grande isolamento, un consumismo aberrante e una crescente violenza verso gli altri e soprattutto noi stessi. Un punto di vista che negli anni non è cambiato e che fa di Safe uno dei film più importanti del regista, anche per il suo sodalizio con la Moore, come confermato in una doppia intervista (qui sopra).

Velvet Goldmine: un tributo alla libertà sessuale e personale

Da Safe del 1995 passano tre anni ed ecco arrivare il celebre Velvet Goldmine, film tributo all’epoca del Glam Rock britannico e omaggio abbastanza palese al grande David Bowie (Velvet Goldmine è stata una delle sue canzoni più riuscite nell’album The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars), nonché a quella corrente musicale che permise alla musica e alla moda di recuperare leggerezza dopo i seriosi e tormentati anni ’70. Anche qui però a dominare è la figura del singolo, dell’alienazione da ciò che ci circonda; della solitudine. Tuttavia altri temi finiscono dentro il racconto creato da Haynes: primo su tutti la libertà sessuale e personale, nonché la condanna verso la società, colpevole di voler soffocare e distruggere i diversi, gli originali, di spacciare per medicina vere e proprie torture, una società dipinta come ipocrita e paurosa.
Pieno di riferimenti ai pensieri di Oscar Wilde e sulla chiacchierata collaborazione tra Iggy Pop e Bowie, il film lanciò in modo definitivo Jonathan Rhys Meyers e mostrò le enormi capacità camaleontiche di Ewan McGregor e Christian Bale, tutti protagonisti di quello che a molti parve quasi un Quarto Potere in versione musicale anni ’80.
Todd Haynes creò un racconto affascinante e variopinto, dove la verità, l’identità e il proprio ruolo nella società venivano distrutti e poi ricostruiti dall’arte, dalla musica, le uniche ali che da sempre permettono all’umanità di elevarsi.

Lontano del Paradiso: il film più riuscito di Todd Haynes?

Leggi la recensione di Lontano dal Paradiso di Todd Haynes

Todd Haynes confermò la sua straordinaria abilità nel mostrarci il volto falso e bugiardo della società nel suo film forse più riuscito e delicato: Lontano del Paradiso, uscito nel 2002 e che lo vide collaborare ancora una volta con la bravissima Julianne Moore, qui nei panni di una perfetta moglie modello della società americana anni ’50, costretta a far fronte non solo alla scoperta dell’omosessualità del marito (un grande Dennis Quaid) ma anche ai sentimenti per il suo giardiniere Ray (Dennis Haysbert), un afroamericano.
Intelligente, misurato, mai sopra le righe, il film fu un trionfo di critica e pubblico per Haynes, capace di fondere in sé tematiche molto diverse in modo ancor più efficace che in precedenza. Oltre alla tematica dell’omosessualità (quasi onnipresente nei suoi film), Haynes si dimostrò capace di parlare della terribile violenza insita nella società americana degli anni ’50, perbenista, fanatica, consumista e razzista.

Anche qui Haynes creò un inno alla libertà, alla possibilità di essere noi stessi, ci mostrò il lato oscuro, dittatoriale e terrificante della società, di quanto essa ami stritolare chi differisce dalla norma, mascherando la ferocia con le buone maniere e le convenzioni.
Il regista inserì anche forti elementi classisti nei suoi personaggi, creando un contrasto fortissimo per tutto l’iter cinematografico, creando dopo Safe l’ennesimo viaggio sull’alienazione (Forzata? Voluta?) dell’individuo nel mondo moderno.

Io Non Sono Qui: il biopic di Todd Haynes su Bob Dylan

Dopo film così pieni di creatività e immaginazione, pieni di colpi di scena, realistici ma distanti dalla realtà “ufficiale”, Haynes stupì il mondo nel 2007 con Io Non Sono Qui, film biografico sul “Menestrello” Bob Dylan.
Ad interpretare nei vari momenti salienti della sua carriera e della sua vita in chiave metaforica, Haynes chiamò ben 6 interpreti diversi: Christian Bale, Cate Blanchett, Marcus Carl Franklin, Richard Gere, Heath Ledger e Ben Whishaw. Tutti loro rappresentavano istantanee, elementi e lati della personalità sfaccettata e complicata di Dylan, all’interno di un film allegorico, a metà tra sogno e realtà, verità e menzogna, licenza poetica e fedeltà assoluta.
Todd Haynes dimostrò con questo film di sapersi misurare con una sfida proibitiva, di saper sposare chiavi di lettura e rappresentazione assolutamente uniche, andando oltre il cliché o il déjà vu, spiazzando spettatori e pubblico. Qui a farla da padrone era l’essenza del percorso artistico del grande musicista, del suo essere sempre stato sostanzialmente un uomo solo, sovente incompreso, osteggiato da quei fan che spesso lo adoravano salvo poi odiarlo per il suo volersi evolvere, differenziarsi, sperimentare…
Haynes paradossalmente creò tramite la metafora irreale di questo film, uno dei migliori ritratti mai fatti di un artista al cinema, guidando gli spettatori dentro la sua mente, le sue paure, i suoi desideri e tutto ciò che dalla sua mente si riversava dai palchi che videro Dylan dominare la scena musicale per decenni.

Todd Haynes e Carol, il film con Cate Blanchett

Leggi la recensione di Carol di Todd Haynes

Passano otto anni, ed ecco tornare al cinema il regista californiano con il suo film sicuramente di maggior successo: Carol. Basato sull’omonimo romanzo di Patricia Highsmith, Carol riportò Haynes alle sue tematiche predilette circa l’omosessualità, la difficoltà di trovare la libertà nella società moderna e la violenza che la società è capace di riversare sui diversi e sui più deboli.
Tuttavia Carol era anche molto di più, era un grande omaggio al cinema anni ’50, era un tripudio di suoni, luci, ombre, al servizio di una sceneggiatura studiata nel minimo dettaglio per portarci dentro l’esistenza di due donne costrette a fare i conti con l’intolleranza, il maschilismo e la prepotenza dell’America bigotta e reazionaria degli anni ’50. Carol viveva del perfetto dualismo tra Cate Blanchett e Rooney Mara, straordinarie nel creare due personaggi umanissimi, fragili ma allo stesso tempo pieni di determinazione e di una vitalità soffocata dai dettami della società che li circondava.
La critica fu semplicemente entusiasta, tanto che ancora oggi Carol è considerato dalla critica il miglior film del 2015, nonostante le sette nomination agli Oscar non avessero fruttato alcuna statuetta.

La Stanza delle Meraviglie: nell’ultimo film di Todd Haynes non c’è omosessualità ma solitudine

Leggi la recensione de La Stanza delle Meraviglie di Todd Haynes

Ebbene, si tratta della perfetta dimostrazione di quanto Todd Haynes sia capace di rimanere se stesso, fedele alla propria poetica cinematografica, al proprio percorso, alla propria visione del mondo senza però rinunciare a variare, a stupire, a scommettere su progetti che a molti sarebbero apparsi rischiosi, azzardati o votati al fiasco.

La Stanza delle Meraviglie ci ha mostrato l’abilità di Haynes nel dipingere mondi completamente distanti nel tempo e nello spazio rendendoli tuttavia parte dello stesso universo, dello stesso sentiero invisibile.
Il film è riuscito a catapultarci nell’universo di due bambini non udenti, mostrando la crudeltà del mondo che li circonda e il loro indomito coraggio nel decidere il proprio destino. È un film che distrugge (come quasi tutti quelli di Haynes) il concetto di famiglia, di focolare domestico, il vero focolare siamo noi, esseri liberi che decidiamo il nostro destino. Il focolare sono le madri ma quelle giuste, quelle vere, non tutte assieme in automatico. Essere madre per Haynes è amare, sacrificarsi, concedere, e la famiglia in fondo può appartenere a solo due individui, basta che funzioni!

Non c’è l’omosessualità come in molti altri film, ma c’è la solitudine, la tematica che gli esclusi sono tali perché superiori alla media, c’è l’America bigotta e rigida, maschilista e falsa, arrivista e spietata. C’è l’uomo che si circonda di creature morte per sentirsi vivo, salvo poi rimpiangerle, c’è l’arte come mezzo per far restare chi e cosa amiamo tra di noi oltre la morte, per aiutarci a trovare una strada dove vediamo vicoli ciechi.
Si erge in tutto questo l’ennesimo ritratto della metropoli come giungla, come incubo e sogno, come pericolo e opportunità, allo stesso modo degli abitanti che la popolano.

Al netto di una filmografia non poi così massiccia, Todd Haynes si conferma regista di enorme tatto ed intelligenza, mai volgare o sopra le righe, maestro della composizione e della narrazione, alternativo senza mai essere arrogante o pomposo.