Perfetti sconosciuti: la spiegazione del finale del film di Paolo Genovese

Avete capito il finale di Perfetti sconosciuti? Ecco il gioco psicologico in cui ci introduce Paolo Genovese.

Perfetti Sconosciuti, la commedia amara di Paolo Genovese del 2016 sui segreti che nascondono le persone che si credono più vicine, è diventato da tempo un vero e proprio brand. Il film, girato quasi esclusivamente nell’elegante interno di una casa borghese romana, mette a confronto tre coppie (due sposate da tempo, una fresca di nozze) e un amico con una ‘sfuggente’ fidanzata dall’identità misteriosa, tutti alle prese con il ‘gioco al massacro’ proposto dalla padrona di casa Eva (interpretata da Kasia Smutniak): rispondere, per una sera, a chiamate, messaggi, mail, senza nasconderne agli altri il contenuto.

Lo straordinario successo di pubblico del film in Italia ha aperto la strada ad una serie di remake europei e ad un recentissimo rifacimento arabo: è evidente, di fronte ad un consenso così unanime, che Perfetti sconosciuti ha una sua forza comunicativa ed è in grado di intercettare dinamiche relazionali universali, di rappresentare una realtà che, a quanto pare, riguarda tutti noi, nessuno escluso, anche al di là delle differenze culturali.

L’ambiguo finale di Perfetti Sconosciuti rivela l’impossibilità di smantellare le nostre finzioni e le nostre sovrastrutture

Eppure, se il film sembra procedere coerentemente fino alla fine – facendo cadere una ad una tutte le maschere indossate dai personaggi e rivelandone le bugie grandi e piccole, le doppie identità e la doppia morale – il finale riavvolge il nastro del disfacimento e ci mostra, del tutto inaspettatamente, i diversi personaggi tornare a casa dalla cena esattamente come vi erano arrivati. Nessuno ha scoperto nulla di quel che gli altri nascondono e tutti continuano ignari la farsa delle loro esistenze segnate da reciproche menzogne o dal compromesso identitario, come nel caso di Peppe (Giuseppe Battiston), omossessuale incapace di dichiararsi tale anche ai suoi amici più cari, i ‘fratelli’ che più di tutti dovrebbero accettarne la diversità e rassicurarlo del loro amore senza condizioni e che, invece, nella messa in scena dell’ipotetico, ma inattuato, disvelamento collettivo, si sono mostrati insensibili e giudicanti.

Non solo Peppe, ma anche gli altri proseguono le loro vite come se nulla fosse stato. Eva, l’organizzatrice della cena, continua ad ignorare che il marito sta affrontando una terapia psicologica con l’aiuto di un analista che non è lei e, viceversa, Rocco (Marco Giallini), il marito, chirurgo plastico di professione, non viene a scoprire che la moglie intende rifarsi il seno servendosi dell’intervento di un altro professionista. Lele (Valerio Mastandrea) e Carlotta (Anna Foglietta) tornano dai loro figli senza mai scoprire le reciproche relazioni adulterine e l’intenzione di lei di mettere in una casa di riposo la madre di lui. Anche gli sposi novelli, l’idealista Bianca (Alba Rohrwacher) e lo spregiudicato Cosimo (Edoardo Leo) non infrangono il loro idillio d’amore a causa della scoperta dei tradimenti di lui e della sua futura, imprevista, paternità. Tutti i segreti sono al sicuro e solo allo spettatore è stata data l’opportunità di vederli rivelati.

Perfetti sconosciuti: il gioco di Eva, una bomba inesplosa

Il gioco di Eva era, infatti, solo una possibilità inespressa, un what if che, nella realtà, non si è mai verificato, una bomba ad orologeria che poteva scoppiare da un momento all’altro, ma è rimasta inesplosa, quasi a suggerire l’impossibilità, per ciascuno, di deporre quelle sovrastrutture che si è costruito per proteggersi dal giudizio altrui, dallo stigma sociale e dalla fatica di confrontarsi con le zone torbide della propria identità. La vulnerabilità di ognuno alla verità della propria condizione viene, dunque, tutelata e nessuno è stato, in realtà, costretto a mostrarsi nudo e fragile di fronte agli altri. Se ciò significa, da una parte, pirandellianamente, che l’autenticità è un’utopia, un luogo che non c’è, ed è impensabile all’interno della ritualità sociale e degli scambi relazionali, caratterizzati anch’essi da una serie di codici che non si possono infrangere; dall’altra, suggerisce che il passatempo apparentemente innocente inscenato a cena è sì inattuabile secondo le leggi non scritte dell’invalicabilità sociale delle nostre difese più intime, ma, in fondo, altrettanto non necessario: la verità, se si guarda bene, è a portata di mano e, basta frugare un po’ più energicamente dietro la superficie, per afferrarne la sua dura, sgradevole consistenza.