Presence: recensione del film di Steven Soderbergh

Il film di Steven Soderbergh, ancora una volta in collaborazione con David Koepp, è una memorabile ghost story, in sala dal 24 luglio 2025.

Quanti segreti restano celati tra corridoi, armadi, ripostigli e soffitte delle nostre abitazioni? Quante volte abbiamo avuto la bizzarra e sinistra sensazione di non essere affatto soli su quel letto o quel divano, mentre tutt’attorno il silenzio della casa si è fatto via via più assordante e l’autosuggestione spaventosamente dubbia, ormai messa in discussione? Presence, il trentottesimo lungometraggio da regista di Steven Soderbergh – che ne ha curato anche montaggio e fotografia – ragiona su queste e altre tracce, ed è in uscita nelle sale cinematografiche italiane a partire da giovedì 24 luglio 2025. Distribuzione a cura di Lucky Red.

L’horror sperimentale è più vivo che mai  

Presence: recensione del film di Steven Soderbergh

Al centro di Presence, una famiglia come tante: una madre (Lucy Liu), un padre (Chris Sullivan) e due figli, Chloe (Callina Liang) e Tyler (Eddy Maday). Dapprima, la scelta di una nuova abitazione nel New Jersey: tentativo ultimo d’allontanare le ombre lunghe del dolore e delle colpe, che perseguitano e dilaniano tanto i figli quanto i genitori. Cos’è accaduto nelle loro vite? Cos’è che continua a serpeggiare, mentre tutto attorno la vita sembra volersi riaggiustare, nonostante i fantasmi delle menzogne e dei non detti non smettano di sussurrare? Il titolo di uno dei più celebri romanzi gotici di Shirley Jackson recita: Abbiamo sempre vissuto nel castello. Cos’è che ha sempre vissuto nell’abitazione – o, altrimenti, nella famiglia morbosamente mostrata e raccontata da Presence? Forse l’oscurità, oppure la violenza, o la menzogna. Se fosse invece una presenza?

A breve distanza dall’uscita in sala del thriller spionistico, minimalista e serrato Black Bag, Steven Soderbergh – guardando a Unsane – torna a esplorare nuovamente territori e linguaggi del cinema horror, sperimentando ancora in termini di nuovi strumenti, dunque immagini. Così come il Danny Boyle di 28 anni dopo, anche Soderbergh sceglie di non adagiarsi affatto sulle convenzioni della comune grammatica autoriale hollywoodiana. La stilistica non è un dettaglio, bensì un elemento del film che grida con forza le proprie verità – e Soderbergh questo lo sa bene. Ecco perché sceglie di girare Presence interamente in soggettiva, assumendo su di sé il ruolo di osservatore onnipresente, invisibile eppure incessantemente tangibile.

Il voyeurismo dello sguardo, dunque, lega immediatamente Soderbergh a noi: lo spettatore è coinvolto in quanto fantasma celato e protetto dalle oscurità della sala. Può dialogare con la presenza, comprenderla e addirittura aderirle fino in fondo, attraverso la partecipazione emotiva e attiva dell’esperienza filmica. Ciò fa sì che Presence si trasformi ben presto in un’osservazione angosciante, atipica, elegante – per quanto coraggiosamente impudica – dei traumi che una famiglia può tentare di seppellire, pur non possedendone gli strumenti, né tantomeno la volontà.
Ecco perché l’horror è soltanto uno dei moltissimi linguaggi di Presence – se non addirittura un punto di partenza, elaborato impeccabilmente dallo script di David Koepp, che opera un vero e proprio camuffamento: cela il dramma dei sentimenti e dell’incomunicabilità tra gli scricchiolii sinistri di una vecchia casa e gli oggetti in movimento. I medesimi che ci raccontano effetti e conseguenze di una dolorosa elaborazione del lutto giovanile, delle complessità matrimoniali e – più in generale – familiari, e ancora dei turbamenti del caos adolescenziale. Da qui la forza della soggettiva e della macchina da presa – ovvero lo sguardo dell’autore e dello spettatore – che indaga morbosamente i volti e i corpi di questi individui perseguitati e sconvolti, non dalla presenza, bensì dall’assenza.

Presence: valutazione e conclusione

Infatti, se gli elementi che Soderbergh e Koepp ci permettono d’osservare conducono il film in una certa direzione – dapprima il dramma, poi l’horror e, in seguito, chissà –, ciò che sopravvive silenziosamente e dolorosamente nel fuori campo, dunque ai margini dello sguardo, racconta tutta un’altra verità e sensibilità. La medesima che dice molto sull’inadeguatezza giovanile, maldestramente osservata da quelle figure genitoriali – o ancor più specificatamente, quelle madri – che, in aperto conflitto con le proprie figlie, possono intercettare realmente la sensazione di caduta, spaesamento e perdizione solo dopo averne abbracciato appieno caos e dolore.

Sullo sfondo serpeggia comunque la vena sinistra e diabolica del male. Non più metaforico, nemmeno fantasmatico. Al contrario, sagacemente radicato in un’immediatezza che appartiene tanto al film quanto ai tempi che viviamo e quotidianamente osserviamo. Ecco perché Presence sconvolge a fondo, scuotendo lo spettatore: perché mostra da vicino – e molto – la realtà oscura degli individui e della nostra vulnerabilità, che, quando viene meno, o s’adagia all’amore o, nel peggiore dei casi, alla morte. Una ghost story inquieta, memorabile e di inedita sensibilità, sospesa tra The Others di Alejandro Amenábar e Wakefield di Nathaniel Hawthorne.

Regia - 5
Sceneggiatura - 5
Fotografia - 5
Recitazione - 5
Sonoro - 5
Emozione - 5

5