Piggy: recensione del film di Carlota Martínez-Pereda

Sulla decostruzione e fascinazione del male, come ricerca stilistica e narrativa che ben più affascina rispetto all’ormai chiacchieratissima e politica, se non ideologica riflessione sul body shaming che qui c’entra e non c’entra. Abbracciando un’idea di cinema capace di flirtare con i linguaggi della commedia grottesca, della rom-com e del dramma, Piggy nega fino alla fine, o quasi, la sua appartenenza al cinema horror, scansandone topos e cliché, per poi culminare in una disperata danza di morte estremamente sanguinosa e questa sì consapevole dei propri linguaggi e riferimenti, tanto da esplorarli fino in fondo, senza alcuna riserva. Sul male che nasce nella famiglia e l’amore proibito, passando per Park Chan-wook e Tobe Hooper. Piggy è al cinema a partire da giovedì 20 luglio, distribuzione a cura di I Wonder Pictures

Nel 2018, Carlota Martínez-Pereda, sceneggiatrice e regista spagnola classe 1975, partecipa alla trentatreesima edizione dei Premi Goya – corrispettivo dell’Oscar in Spagna – conseguendo la vittoria con il suo secondo cortometraggio da regista, Cerdita, destinato di lì a quattro anni a mutare in un curioso e bizzarro lungometraggio intitolato Gerdita e tradotto in Italia e all’estero come, Piggy.

Laddove Cerdita sceglie di soffermarsi e fotografare unicamente la dimensione di disagio solitario dell’adolescente Sarah (Laura Galán) costretta a guardarsi continuamente attorno, pur di non essere derisa e molestata in piscina e poi per strada dalle coetanee che incontra, esplorando brevemente l’horror attraverso una rapidissima incursione, verrebbe da dire lontanamente suggerita, rispetto alla questione del serial killer e della morte, Piggy va a fondo, raccontando le dinamiche sadiche e crudeli della provincia e della famiglia, a tal punto da essere principale causa di un male e di una ferocia assolutamente animalesche, con conseguente mutazione della vittima in carnefice.

Unica distinzione di peso tra il cortometraggio e la sua versione a lungometraggio è la caratterizzazione del serial killer. Se nel primo appare di un’età ormai avanzata, perciò giustamente disinteressato alla giovane e goffa Sara, nel secondo diviene improvvisamente coetaneo o quasi, così da dar vita alla dimensione da rom-com grottesca che Carlota Martínez-Pereda fa propria, guardando ad uno dei titoli più interessanti e purtroppo dimenticati del magistrale Park Chan-wook, ossia, Stoker.

PIGGY: cinematographe.it

Il male della provincia e la fascinazione erotica della morte

Così come molta letteratura e molto cinema hanno raccontato a proposito della provincia, come luogo limitato, conflittuale, bigotto e maligno, anche Piggy di Carlota Martínez-Pereda ne esplora gli angoli più bui. Si fa per dire, perché il film della Pereda, fatta eccezione per un segmento finale incredibilmente cupo e disperato, è quasi interamente illuminato da una luce abbagliante e da un caldo afoso che lo spettatore può in più di un momento percepire sulla propria pelle, cercando conforto in una zona d’ombra inesistente che lo sguardo registico della Pereda annulla maniacalmente, soffermandosi senza sosta su volti e corpi fradici di sudore e posti inevitabilmente di fronte a ventilatori e aree refrigerate, proprio come la salumeria della famiglia di Sara.

Di angoli bui la cittadina di provincia che è sfondo e al tempo stesso protagonista assoluta di Piggy, ne ha parecchi, a cominciare dalla famiglia di Sara. D’altronde come spesso viene detto, è proprio la famiglia a scatenare il nostro meglio e il nostro peggio, e così accade.

Nessuna famiglia è salva nella provincia spagnola che la Pereda ci mostra e racconta. Chi ha cresciuto dei bulli e delle bulle, chi invece qualcuno di ancor più crudele e chi ancora, complice della violenza e del male insito in quei luoghi sceglie di rispettare un omertoso silenzio, senza dunque agire, soltanto accettare che tutto possa accadere, perfino la morte.

Quando quest’ultima arriva non è infatti sottolineata da oscuri presagi, né tantomeno da accompagnamenti sonori minacciosi e d’avvertimento, piuttosto silenziosamente introdotta, rispettosa di una calma placida e rovente che non intacca in alcun modo il clima estivo insopportabilmente rilassato, se non totalmente dormiente della comunità della cittadina, la cui risposta alla presenza della morte non può che rifarsi ai linguaggi della soap e della fiction di matrice spagnola che abbiamo avuto modo di conoscere ripetutamente perfino in Italia, dal 2010 in avanti.

Prima della morte però c’è il dramma.

Infatti Sara/Gerdita (Laura Galán) si ritrova costretta a vivere una vita di molestie e soprusi a causa di una condizione di sovrappeso tutto sommato importante, tale da renderla oggetto d’interesse delle giovani bulle del paese. Ben consapevole di non poter chiedere in alcun modo aiuto alla famiglia, a causa di una madre feroce e spietata, di un padre inesistente e impigrito dalla vita e da un fratellino sciocco che nulla può se non insultare e deridere chi non può comprendere, e soltanto osservare, Sara vive nello sconforto, che soltanto una precisa tipologia di merendina è capace di alleviare.

Osservano. Ciò che tutti fanno quando Sara è in scena è osservare, e la Pereda sceglie di concentrarsi su questo elemento più e più volte, ponendo il corpo sgraziato della Galán al centro dell’inquadratura, messo a confronto con un ambiente circostante desolato, arido e abbandonato al suo destino, proprio come sembra esserlo Sara.

Eppure perfino in scelte di campo lungo e lunghissimo, Sara domina lo spazio, facendolo proprio, distruggendolo quasi. Ecco dunque ciò che manca a tutti gli altri, la comprensione, o l’osservazione attenta e diretto di un fenomeno che sta per scatenarsi, o per dirla in altro modo, di un destino ormai prossimo al radicale mutamento, tanto improvviso e importante da spaventare.

Non appena la dinamica dell’assassino seriale, perciò della violenza e del sangue prende piede, senza tuttavia annullare la costruzione dialogica e filmica da vero e proprio teen movie estivo, tutto diventa chiaro. Ci sono corpi che scompaiono, altri che vengono ritrovati orrendamente mutilati e così via, e tutti gli abitanti della cittadina temono inevitabilmente per ciò che verrà, fatta eccezione per Sara.

In qualche modo, essendo stata vittima per tutta la sua giovinezza, Sara comprende immediatamente di non poter cadere nella rete dell’assassino, sfuggendole, poiché a differenza di tutte le altre vittime, non soltanto può non temere l’uomo misterioso che uccide e sparisce senza troppo impegno nella sua cittadina di provincia, ma perfino comprenderlo e forse amarlo.

Provando una fascinazione erotica nei confronti della morte, del sangue e del dolore, Sara scopre qualcosa di sé fino a quel momento taciuta e celata, l’attrazione che la Pereda analizza e porta a soddisfacimento e culmine attraverso un atto di masturbazione notturno anche questo sgraziato e nervoso, eppure chiave di quella trasformazione poco prima accennata che risveglia la bestia, e annulla la vittima.

PIGGY: cinematographe.it

Non è così lontano il ricordo di un personaggio femminile estremamente simile a quello di Sara, seppur differente in termini di lavoro sulla fisicità. India Stoker (Mia Wasikowska), una giovane donna borghese che allo stesso modo di Sara, giunge ben presto a desiderare la morte della propria famiglia, provando sulla propria pelle, ed improvvisamente, un’inattesa attrazione erotica e più direttamente sessuale nei confronti del male, della violenza e della crudeltà, incarnate nei panni di uno zio assassino, Charlie (Matthew Goode). Interessante dunque lo sguardo che la Pereda sembra aver indirizzato a quel piccolo grande film che è Stoker di Park Chan-wook e al quale si rifà in più di un’occasione.

Come fosse un film di Dario Argento, rimaneggiato da Pedro Almodovar, Michael Haneke e Álex de la Iglesia, Piggy riesce nel raggiungimento di quell’impresa estremamente complessa e raramente soddisfacente che corrisponde alla costruzione di un personaggio principale che pur soggetto a radicale cambiamento, deve rivelarsi capace di un mantenimento emotivo inattaccabile, pur muovendosi senza sosta tra i generi, passando per la commedia, il grottesco, il romantico, l’horror e così via. Mutare ma anche restare sé stessi.

La Pereda lavorando con grande attenzione sulla fisicità di Sara, ne intercetta non soltanto il ruolo di possibile – e finalmente! – vittima che diviene carnefice pur di ribellarsi a bullismo ed angherie, desiderando immoralmente di trucidare, o far trucidare la sua stessa famiglia, ma anche l’anima animalesca del personaggio, che si riflette sull’interpretazione della Galán composta perlopiù da versi, grugniti e urla.

Piggy: valutazione e conclusione

Piggy è un film interessante ed estremamente fuorviante, capace di nutrirsi di una moltitudine di generi che non prendono mai davvero piede in quanto centrali e definitivi, piuttosto alternandosi tra loro, convincendo lo spettatore di star per osservare un racconto di genere fortemente sanguinoso e violento, ponendolo invece di fronte ad una narrazione dolcemente grottesca ed un immaginario sadico che scelgono di non affacciarsi mai realmente – o totalmente – sull’horror, fatta eccezione per una conclusione questa sì cinefila, che non può che guardare al leggendario Non aprite quella porta di Tobe Hooper del 1963, restando sospesa, perché come detto, è solo un’illusione, e Piggy è qualcosa di decisamente più complesso e vario.

Distribuito da I Wonder Pictures, Piggy è al cinema a partire da giovedì 20 luglio.

Regia - 3
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3
Recitazione - 3
Sonoro - 3
Emozione - 3

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