Missing – recensione del film di Nicholas D. Johnson e Will Merrick
Internet. Quanto condiziona le nostre vite? Quanto scegliamo quotidianamente di affidarci ai suoi database, file, estensioni, siti, piattaforme social, live cam, finestre e via dicendo, senza tuttavia curarci della messa in sicurezza dei nostri dati? La risposta è palese, ma non siamo realmente interessati a conoscerla, un po’ perché ci preoccupa e un po’ perché ne resteremmo sempre e comunque all’oscuro, pur informandoci.
Una nuova idea di cinema – La rete è la nuova frontiera
Ancor prima di giungere a Missing, a partire dal 2010, una nuova ondata di autori cinematografici si è interessata all’indagine dei social network e degli strumenti che quotidianamente utilizziamo a partire dallo smartphone, fino al PC, alle videocamere di sorveglianza e alle live cam offerte dai servizi internet più disparati, nel tentativo di sfruttare questi mezzi come fossero veri e propri motori e anime di un nuovo modello di cinema, capace di oltrepassare una volta per tutte i limiti del mockumentary, spingendosi oltre e ragionando sulla potenza cinematografica, simbolica, inevitabilmente metaforica e narrativa degli schermi e delle finestre interattive la cui natura è immagine fin dalla nascita delle primissime e rudimentali offerte della rete, in costante aggiornamento ed espansione.
Basti pensare all’ormai leggendario e in qualche modo maledetto, Megan is missing, il film di Mike Goi che nel 2011, prima di molti altri comincia a sfruttare le riprese di alcune videocamere di sorveglianza come fossero vere e proprie sequenze, in cui la tensione cresce a causa del ristretto margine di ripresa, tagliandoci fuori dall’inquadratura e alimentando il caos e la paura dello spettatore. E poi ancora Disconnect che servendosi del dramma a tinte thriller ragiona sul rapporto e confronto tra emotività del reale – fuori ed oltre gli schermi – ed emotività se non addirittura personalità virtuale – dentro gli schermi – problematizzando una lunga serie di concetti in una modalità fino a quel momento mai esplorata, se non parzialmente da Megan is missing, ossia fare cinema attraverso gli stessi schermi raccontati dal film, perciò con il loro uso diretto, ponendo lo spettatore di fronte ad un’abitudine quotidiana certamente estremizzata, seppur realista e per questo spaventosa, quella dei telefoni e dei computer.
Appena qualche anno dopo titoli come Unfriended e The Gallows spopolano a livello internazionale, raggiungendo risultati insperati al botteghino, dando perciò il via ad una ricerca autoriale cinematografica – in quel momento ancora sperimentale – rispetto alla produzione di film a basso costo, ma dall’incasso facile, concentrati e ambientati unicamente sulla resa horror o thriller di tutte quelle dinamiche capaci di scaturire dallo schermo di un PC o di uno smartphone che sia, la cui scrittura avrebbe presto ceduto il passo ad una importante dose d’improvvisazione, oppure all’errore accidentale – e chiaramente programmato – di siti, applicazioni, strumenti web tra cui bug, virus, crolli improvvisi della rete, misteriose chat avviate in automatico e così via, al fine di terrorizzare il pubblico, intervallando e sospendendo di tanto in tanto la consapevolezza di ciò che accade, attraverso il buio di un desktop non funzionante o luci e suoni legati a semplici errori di sistema.
Per la prima volta, lo spettatore si ritrova seduto in una sala cinematografica, osservando sul grande schermo nient’altro che una realtà virtuale quotidianamente abusata, perciò posto non di fronte a qualcosa di estraneo o che ignora, bensì a sé stesso, ritrovandosi nei panni di un uomo o donna qualsiasi – e in più di un caso invisibile- che nello “scrollare” Facebook, Instagram, Twitter – o qualsiasi altra piattaforma social – diviene improvvisamente vittima o preda di una situazione ed azione virtuale assolutamente spaventosa e di grande tensione ed impatto emotivo che viene gestita unicamente e fino agli ultimissimi secondi del film attraverso lo schermo, le applicazioni, le videochiamate, i messaggi di testo, i file, le informazioni e tutti i dati condivisi online, presentando inevitabilmente quella domanda che è fulcro dell’intera ricerca cinematografica e narrativa avviata da questi autori: tutto ciò è così lontano dal reale?
Chiaramente c’è chi ha modellato questa indagine cinematografica virtuale virando verso l’horror, preferendo dunque il sovrannaturale al reale, e chi invece si è mosso nella direzione contraria, aderendo il più possibile a tutto ciò che questi strumenti sono in grado di comunicarci, di mostrarci e svelarci quotidianamente senza dover ricorrere a fantomatici hacker alla Matrix, oppure ad oscuri angoli della rete, senz’altro reali, ma dalla narrazione ormai leggendaria e contaminata, riflettendo dunque anche sui nostri istinti certamente voyeuristici. Se il franchise Unfriended sceglieva con grande piglio autoriale l’horror sovrannaturale, quello di Aneesh Chaganty, Sev Ohanian, Nicholas D. Johnson e Will Merrick (Searching e Missing) preferisce aderire al reale, operando una ricerca drammatica a tinte thriller il più possibilmente documentaristica e credibile, e forse per questo ancor più attrattiva e tensiva della paura fantasmatica e oscura del sovrannaturale.
Da Searching a Missing – Cos’è rimasto, cos’è cambiato
Laddove Searching si configurava come l’apristrada di quella ricerca cinematografica interattiva e non convenzionale sfruttando interamente i social, le webcam e le applicazioni disponibili in quantità illimitata su Smartphone, PC, Tablet e Smart Tv, Missing, sequel diretto seppur sotto mentite spoglie scava ancora più a fondo, ampliando quella stessa ricerca interattiva, tanto da estenderla ad ogni possibile strumento mediatico e all’avanguardia capace di mostrare in diretta o in differita qualcosa o qualcuno che è stato ripreso o intercettato, tanto da una camera web, telefonica, o d’automobile, quanto da una semplice cronologia, o applicazione di viaggio o mappa, dal contenuto in ogni caso mai duraturo e dalla scadenza e permanenza attiva fortemente limitata.
Searching conquista e sorprende per efficacia narrativa, dimostrando quanto quei linguaggi virtuali siano in grado di produrre un grande esempio di cinema thriller tensivo e ansiogeno, con tanto di indagini, sparizioni, omicidi e colpi di scena, al netto di una limitazione registica senz’altro messa in conto fin dal principio, quella stessa limitazione su cui ragiona invece Missing, elaborando un riuscitissimo mix tra desktop movie, mockumentary, thriller metalinguistico e mediale, e universo audio video proprio delle numerosissime piattaforme social protagoniste di entrambi i film e in espansione costante.
Laddove Searching concludeva, Missing ricomincia, partendo proprio dalla riflessione meta, cioè dall’osservazione diretta da parte della nostra giovane protagonista June (Storm Reid) delle vicende di Searching non più attraverso l’indagine interattiva, confusa e caotica che gli spettatori hanno avuto modo di vedere al cinema e generata dall’uso degli strumenti virtuali di David Kim (John Cho), – il protagonista del precedente film – bensì nella sua resa televisiva e documentaristica fittizia inserita nell’enorme proposta mediatica di servizi contenutistici streaming come Netflix.
Tutto è intrattenimento, tutto è Fiction, perfino una drammatica ed inquietante realtà messa in luce da un’indagine online di un padre, rispetto alla sparizione della figlia. Il discorso generazionale di Searching non casualmente diviene elemento narrativo centrale del film, nel suo proporre uno scontro tra individuo sprovvisto di quelle essenziali capacità e conoscenze della rete, e gli strumenti e limiti della stessa. Un discorso che in Missing svanisce, rendendo l’intera narrazione molto più adrenalinica, immediata, action e ansiogena, poiché gli accadimenti del precedente film subiscono un ribaltamento necessario e questa volta a sparire nel nulla e nel buio non così profondo della rete sono gli adulti, costringendo all’indagine quei giovani che meglio di chiunque altro conoscono dinamiche e uso degli strumenti virtuali offerti dai più disparati strumenti di uso quotidiano, come appunto live cam, webcam, cronologie di rete, mail localizzazioni e così via.
Esplorare le profondità tematiche e registiche – L’universo interattivo sconfinato e spietatamente drammatico di Missing
Laddove Searching si concentrava sul thriller più canonico, Missing ne indaga anche gli aspetti drammatici, raccontando il male che nasce nella famiglia, e quei segreti o verità inconfessabili capaci di farci sospettare perfino degli amici più stretti o dei parenti. I limiti registici qui svaniscono e il duo Johnson/Merrick ce la mette tutta pur di non allontanarsi mai né dal volto, né tantomeno dal corpo di June, servendosi in ogni caso di inquadrature interattive che ancora una volta, partendo dai bug, o dai malfunzionamenti più inspiegabili coinvolgono lo spettatore in un gioco psicologico spietato, ansiogeno e perfettamente orchestrato che partendo da un’indagine apparentemente semplice, diviene un incessante spirale di eventi capaci di generare un’atmosfera narrativa ed emotiva di sorprendente complessità ed intensità tra traumi del passato e violenze del rimosso.
Missing di Nicholas D. Johnson e Will Merrick è un grande film, il cui più grande merito è di aver mantenuto nel corso di questi ultimi anni uno stesso interesse narrativo e mediale, sottoposto inevitabilmente a costanti aggiornamenti strumentali e contenutistici (e non), un po’ per questioni temporali e un po’ per questioni sociali, in nome di una ricerca cinematografica destinata a sorprenderci e conquistarci sempre più, divenendo puro intrattenimento attraverso l’uso narrativo di quegli stessi strumenti che ogni giorno siamo convinti – ingenuamente – di controllare, ma dai quali in realtà non soltanto siamo controllati, bensì spiati.