Venezia 80 – Lubo: recensione del film di Giorgio Diritti

Giorgio Diritti porta in concorso alla Mostra di Venezia e nelle sale dal 9 novembre 2023 la storia di Lubo Moser in un period-drama di grande impatto emotivo, arricchito dall’intensa interpretazione di un Franz Rogowski in stato di grazia.

L’80esima Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica è un’edizione che passerà agli annali per avere ospitato in concorso ben sei film battenti bandiera tricolore. L’ultimo in ordine di tempo a sfilare sul red carpet e a scorrere sullo schermo della Sala Grande è stato Lubo di Giorgio Diritti, la cui uscita nelle sale nostrane con 01 Distribution è prevista il 9 novembre 2023. Nel frattempo la pellicola, la quinta in carriera per il regista bolognese, ha potuto raccogliere in quel del Lido di Venezia il plauso del pubblico e della critica presente. Consensi, questi, meritati per un’opera che sulla carta aveva davvero tutto per fare bene: dalla presenza dietro la macchina da presa di un cineasta di esperienza come Diritti a quella davanti di un attore di straordinario talento come Franz Rogowski, chiamato a interpretare il protagonista di una storia importante e toccante come quella di Lubo Moser, raccontata nel romanzo Il seminatore di Mario Cavatore.

Alla base della sceneggiatura di Lubo ci sono le pagine del romanzo Il seminatore di Mario Cavatore, al quale Giorgio Diritti si è liberamente ispirato

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Alla base di tutto ci sono dunque le pagine del libro del 2004 del compianto scrittore piemontese, alle quali Diritti e Fredo Valla si sono liberamente ispirati per dare forma e sostanza alla sceneggiatura di un intenso dramma storico che ripercorre la straziante odissea umana di Moser, un un artista nomade di origini jenisch che nell’inverno del 1939 è costretto ad arruolarsi nell’esercito elvetico per difendere i confini nazionali dal rischio di un’invasione tedesca. Venuto a conoscenza della morte dell’adorata moglie in circostanze poco chiare e strappato ai suoi tre figli piccoli dal programma di rieducazione nazionale per i bambini di strada fondato sui princìpi dell’eugenetica (Hilfswerk für die Kinder der Landstrasse), l’uomo farà di tutto per ritrovarli e fare giustizia per sé e per tutti coloro che hanno subito la medesima sorte. Tutto però è perfettamente legale e non ci si può opporre alla legge, con la mente che per analogie torna a Rapito di Marco Bellocchio e a quanto subito da Edgardo Mortara e dai suoi cari.

L’intensa interpretazione del camaleontico Franz Rogowski è uno dei punti di forza del film

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Prende così il via quello che di fatto è un revenge movie che si dirama tra le pieghe narrative di un period-drama. Al centro del racconto il lungo e tortuoso cammino di un padre e di un marito che lo porterà ad architettare e mettere in atto un progetto dai risvolti inaspettati per vendicare la sua famiglia e la sua gente. Nei 180 minuti a disposizione assistiamo al contempo ai suddetti risvolti e al cambiamento totale e totalizzante di colui che ne è stato artefice, che sotto gli occhi dello spettatore si tramuta a causa degli eventi in un essere umano duro e impenetrabile, espressione di dolore, rabbia, violenza e ambiguità, che lo pone sul confine tra il bene e il male. Il regista bolognese disegna in maniera impeccabile la traiettorie di questa trasformazione e lo ha fatto anche grazie alla bravura dell’interprete principale. L’ennesima e potentissima performance di Rogowski, ammirato recentemente in tutto il suo incredibile talento camaleontico in Passages, consente all’opera di alzare ulteriormente l’asticella. L’autore infatti aveva assolutamente bisogno di un attore capace di intercettarne le frequenze emotive di una figura molto complessa, autentico baricentro di un film dalle dinamiche emotive altrettanto complesse, come era stato precedentemente per l’Antonio Ligabue interpretato da Elio Germano in Volevo nascondermi. L’attore tedesco dal canto suo ha risposto presente, diventando un valore aggiunto, al quale hanno contribuito anche altri compagni di set come Valentina Bellè o Christophe Sermet.

Lubo si caratterizza per la cura nella ricostruzione storica

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Rogowski è dunque la ciliegina sulla torta di un film dalla struttura architettonica solida, supportata da una sceneggiatura che opera bene sia sul piano narrativo che drammaturgico. Lo stesso Diritti traspone il tutto con la sicurezza e la puntualità di una regia calzante e incalzante, che si mette al servizio della storia e dei personaggi con un approccio classico e mai invasivo. Scrittura e confezione di qualità e quantità vanno di pari passo, accompagnando la triste vicenda di Lubo sino al duro e poco consolatorio epilogo. Da segnalare il contributo alla causa del comparto tecnico, dove il lavoro nell’ombra e dietro le quinte del direttore della fotografia Benjamin Maier, i costumi di Ursula Patzak, le scenografie di Giancarlo Basili e le note avvolgenti della colonna sonora di Marco Biscarini, fanno la differenza, immergendo perfettamento il fruitore nel contesto storico che fa da cornice al film.    

Lubo: conclusione e valutazione

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Per il suo Lubo, Giorgio Diritti si ispira liberamente al romanzo Il seminatore del compianto scrittore piemontese Mario Cavatore, dando forma e sostanza a un period-drama che attraverso il percorso di vendetta di un uomo strappato ai suoi affetti esplora il confine sottile che separa il bene dal male. Il regista bolognese dirige con la precisione e l’afflato che lo contraddistingue e che contraddistingue questa e le sue opere precedenti. Nel farlo trova un contributo importante nella performance di un intenso Franz Rogowski nei panni del protagonista, ma anche nel comparto tecnico che lo ha supportato l’autore sia in fase di scrittura che di messa in quadro, dove spiccano il lavoro di ricostruzione storica dei costumi e delle scenografie, che riportano indietro le lancette sino all’inverno del 1939 con grandissima efficacia.   

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4
Recitazione - 4.5
Sonoro - 4
Emozione - 4.5

4.2