Rapito: recensione del film di Marco Bellocchio

Con Rapito Marco Bellocchio riesce a sviscerare i concetti di fede, famiglia, appartenenza.

Marco Bellocchio porta in concorso alla 76ª edizione del Festival di Cannes e al cinema da 25 maggio 2023 con 01 Distribution Rapito, un film potente, drammatico, a tratti persino ironico e folle, in cui la sapiente mano del regista piacentino rimescola su pellicola i concetti di potere, fede, famiglia e libero arbitrio, in un gioco a scacchi assurdo in cui non si può fare a meno di focalizzarsi sui dettagli, lasciando che una moltitudine di domande percuota la nostra carcassa dall’interno.

Il regista di capolavori come Bella addormentata, Vincere, Il traditore e il più recente Esterno Notte prende le mosse dalla vera storia di Edgardo Mortara, il bambino ebraico battezzato di nascosto e strappato alla propria famiglia a soli sei anni per essere cresciuto secondo i principi della Santa Romana Chiesa. Una storia assurda la cui sceneggiatura – scritta dal regista insieme a Susanna Nicchiarelli, con la collaborazione di Edoardo Albinati e Daniela Ceselli e la consulenza storica di Pina Totaro – scorre su un terreno stabilmente arso di dilemmi.
La macchina da presa irrompe nella casa dei Mortara lasciando che l’ansia e la paura ci restino appiccicate addosso: non capiamo esattamente cosa stia accadendo, proprio come i genitori del piccolo Edgardo, Salomone (Fausto Russo Alesi) e Marianna (Barbara Ronchi), restiamo attoniti e incapaci di comprendere come risolvere tale rebus.

Una colonna sonora che ci tiene in ostaggio il cuore in un film che è un’altalena vorace di misericordia, fedeltà, pregiudizio e imprevedibilità

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Rapito di Marco Bellocchio, nella foto Paolo Pierobon e Enea Sala (ph. Anna Camerlingo)

La musica di Fabio Massimo Capogrosso gioca d’anticipo o si inarca sotto i colpi della narrazione: è un invito allettante quanto pericoloso e carico d’ansia, quel prenderci per mano delle note, scintillanti e lacunose, subito pronte a inerpicarsi su suoni più acuti. Poi, nello scorrere delle immagini su pellicola, sa farsi sinfonia arabesca e litania, sa essere spettrale, ansimante e concitata, sa mettersi persino da parte e inchinarsi al suono delle preghiere che si incontrano e scontrano, in parole, luoghi e contesti differenti, come a voler siglare un’unione mai davvero realizzabile, sussurrata indefinitamente da una regia in grado di narrare il mistero.

Bellocchio sa prendere il tempo e materializzarlo sullo schermo, riesce a renderlo prismaticamente relativo, un macigno invalicabile e incalcolabile.
Tempo.
Quando è stato battezzato e da chi? Quanto tempo dovrà stare lontano dalla propria famiglia? E quanto tempo ci vorrà prima che tutta l’Italia sia finalmente libera dal potere ecclesiastico? La burocrazia sottrae giorni, mesi e anni alla vita che Edgardo avrebbe potuto vivere, se solo non fosse stato vittima di questo imbroglio, e la macchina cinematografica provvede a farci sentire schiacciati da un potere umano irrevocabile e crudele.
Non è una questione di fede, di anima, di immortalità, quanto piuttosto una questione di dogmi e istituzioni, un gioco di forza che vede al vertice, da una parte, il Papa interpretato da Paolo Pierobon, il quale sa imporsi oltre lo schermo, avvolto in un sadismo malcelato di tenerezze, in una santità solo apparente nelle pieghe della quale si infiltra l’inferno imposto ai viventi, l’osservanza inflitta a chi porta storicamente la croce per aver crocifisso il Messia. È un Papa la cui ira si infila sottopelle ed esplode, in frasi che ce lo fanno letteralmente detestare: “Si può perdere di tutto, ma non l’amore che Cristo ha conquistato con il suo sangue. Io sono il papa, solo a Dio devo rispondere”.

Rapito: un cast perfetto con dei “cattivi” potentissimi e una Barbara Ronchi fenomenale

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Rapito di Marco Bellocchio, nella foto Barbara Ronchi (Ph. Anna Camerlingo)

Fabrizio Gifuni nei panni dell’inquisitore Pier Gaetano Feletti fa da apripista, in ordine di apparizione, a una triade imperscrutabile che comprende, oltre al già citato personaggio di Pio IX, anche un astuto Cardinal Antonelli, interpretato dal sempre impeccabile Filippo Timi.
In questi personaggi si staglia il volto più aspro della religione cattolica, si riescono a intravedere i passi di un atteggiamento che ha condotto la Chiesa a primeggiare, schiacciare, annientare. La cattolicità narrata e purtroppo veritiera che Marco Bellocchio ci mostra trascende la visione e il credo dell’autore; egli piuttosto sparisce per far sì che ci sia una parvenza di dialogo tra due fazioni opposte.
Così dall’altro lato della barricata, oltre a una fervente comunità ebraica, si impone con coraggio e perseveranza la figura della madre di Edgardo: Barbara Ronchi sa conferire alla sua Marianna tutto l’ardore, lo sdegno, la forza di volontà, la compassione. È una madonna addolorata ma grintosa, che piange un figlio strappato a forza, che irriga con parole ed espressioni il sentimento che il bambino mantiene assopito per timore. In tale spaccatura risulta naturale pensare che la storia non si fa né con i se né con i ma, eppure sembra lapalissiano credere che se tutto fosse stato gestito da Marianna il racconto sarebbe stato di gran lunga differente.

Ma la storia narrata in Rapito è quella già scritta e il piccolo Edgardo Mortara, interpretato con dedizione da Enea Sala, è l’emblema di un’innocenza violentata nello spirito. Egli coglie, in una prospettiva che spesso lo pone in uno status d’inferiorità, tutto il dolore di Gesù Cristo. Emblematica, a tal proposito, la scena in cui estrae i chiodi dalla carne inanimata, così come sanno essere pungenti le domande infantili ma eterne di chi si domanda perché Dio non abbia ascoltato le proprie preghiere.
Edgardo è il vero mistero di quest’opera. Il suo avvicinamento alla fede, che è spirito di adattamento; il suo non riuscire a tornare indietro. Accedendo a un mondo diverso rispetto a quello in cui ha vissuto fino ai primi anni d’età il bambino scorge una nuova verità, un mistero che resta tale e che lo cambia nel profondo, lasciandolo comunque in un perenne limbo.
A Leonardo Maltese è affidato il compito di traghettare sullo schermo l’immagine di un Edgardo ormai cresciuto: è caduta dagli occhi la tenerezza e anche quel guizzo di curiosità, è accecato di fede e flebile ribellione, è drogato da una convinzione che l’ha reso impeccabile ma silenziosamente implacabile. E, come in tutte le opere di Bellocchio, il colpo di scena finale sarà liberatorio e disarmante.

Rapito: un film che semina incertezza e che ci rendi tutti esuli e orfani

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Rapito di Marco Bellocchio, nella foto Leonardo Maltese (Ph. Anna Camerlingo)

Edgardo è la cifra di una mancanza, di una visione bieca; nella sua vicenda si coagula l’esodo verso una meta destinata a restare incerta. Il rapimento a cui si fa cenno nel titolo è totale: è un rapimento fisico e mentale, è l’elaborazione ingannevole di un posto in cui sentirsi al sicuro, lontani da occhi indiscreti. Eppure, proprio come quando si gioca a nascondino, non esiste un nascondiglio realmente sicuro, un luogo che possa definirsi realmente casa, in cui sentirsi liberi di essere, al di fuori delle imposizioni.
Marco Bellocchio opera il confronto in alcune scene che spezzano quasi in due la pellicola: il gioco iniziale di Edgardo e dei suoi fratelli, presso le mura domestiche, e lo stesso gioco presso i Giardini Vaticani e, ancora, l’atto di nascondersi prima sotto la veste della madre e poi sotto quella del Papa.
C’è, insomma, sempre qualcuno che sceglie di nascondersi o di celare la verità agli altri, perché Rapito è di fatto questo: una storia che semina disorientamento e incertezza, che grida con forza quanto siamo tutti esuli e orfani, di quanto abbiamo bisogno di appartenere a una famiglia (che può avere varie forme), ignorandone i difetti e limitandoci a vederla come un nido sicuro in cui il male non può sfiorarci. Poco importa quel dedalo di tradizione, regole, rituali. Assecondare questo marasma è accettare di farne parte, è garantirsi una parvenza di amore.

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Rapito di Marco Bellocchio, La famiglia Mortara (Ph. Anna Camerlingo)

Anche alla luce di questo Marco Bellocchio si interroga e ci interroga non su quanto sia giusta questa o quell’altra religione, bensì sulle relazioni che intercorrono tra le istituzioni religiose, il peso morale di cui essa si fa carico e il modo in cui la percepisce la comunità. Il regista usa ogni prospettiva a sua disposizione per esplorare tutti i lati della vicenda e come un ago discreto nella stoffa riesce a tenere insieme un caleidoscopio di toni differenti, intervallando continuamente il dramma storico e giudiziario a quello familiare, al film di formazione. Così facendo le nostre domande sono molteplici e siamo di colpo ebrei, cattolici, atei, siamo bambini o genitori. E la nostra mente è pasta di sale da modellare, convertire, comprendere. C’è intimità, in Rapito, c’è delusione e c’è anche rivoluzione.

Dopotutto siamo nella Bologna del 1858, in un periodo di transizione. Si viaggia dall’Emilia Romagna a Roma e ci si perde tra le strade di un mondo che da lì a poco sarebbe stato adagio seppellito, riportato in vita dalle scenografie di Andrea Castorina e dai costumi di Sergio Ballo e Daria Calvelli, nonché da una cesellatura linguistica non indifferente e, chiaramente, dalla fotografia di Francesco Di Giacomo, a cui va il merito di sottolineare i chiaroscuri così caravaggeschi, le cartoline lacustri che ricordano i paesaggi di Claude Monet, le prospettive che trasudano perdizione in un gioco di colori che ci aggancia sempre e comunque alla finitudine terrena.

Rapito: valutazione e conclusione del film di Marco Bellocchio

Un film affascinante, in cui Marco Bellocchio si inabissa nella verità come dentro un buco nero, certo di portare in dote al pubblico un cast capace di concedersi oltre sé stesso (arricchito anche dalle interpretazione di Paolo Calabresi, Samuele Teneggi, Aurora Camatti, Bruno Cariello, Andrea Gherpelli, Walter Lippa, Alessandro Bandini, Leonardo Binaconi, Daniele Aldovrandi, Corrado Invernizzi, Fabrizio Contri, Giustiniano Alpi, Federica Fracassi, Orfeo Orlando, Renato Sarti, Flavia Baiku, Giulia Quadrelli, Tonino Tosto, Christian Mudu, Riccardo Bandiera), un comparto tecnico affiatato in cui ogni tassello d’arte si fa meraviglia e un’idea ben precisa di cinema, che promette verità per concedere molto di più. Rapito è la potenza della suggestione fatta film, è un brivido di paura, imposizione e follia, ma anche un’opera in cui si sorride molto, come in tutti i drammi di realtà. Potete crederci ciecamente, come un dogma, o provare a scardinarlo dall’interno; in sostanza poco cambia, perché il film rapisce una parte indefinita di noi e la trascina dentro lo schermo per poi farla vivere, mutata, là dove risiede la vita vera.

l film, ispirato al romanzo Il caso Mortara di Daniele Scalise (edito da Mondadori), è una produzione IBC Moviee Kavac Film con Rai Cinema in coproduzione con Ad Vitam Production (Francia) e The Match Factory (Germania) ed è prodotto da BeppeCaschetto e Simone Gattoni, coprodotto con la partecipazione diCanal+, Ciné+, Bayerischer Rundfunk, ARTE France Cinéma in associazione con ARTE e con Film-und Medienstiftung NRW con il supporto di Région Ile-de-France.Il film gode del contributo selettivo del MIC Ministero della Cultura e del sostegno della Regione Emilia-Romagna attraverso l’Emilia–Romagna Film Commission.

Regia - 5
Sceneggiatura - 5
Fotografia - 5
Recitazione - 5
Sonoro - 5
Emozione - 5

5