Roma FF18 – Estranei (All Of Us Strangers): recensione del film di Andrew Haigh

Di genitori e figli e ancora di solitudini, amori e fantasmi. Al quarto lungometraggio da regista, Haigh rilegge Yamada Taichi, riflettendo malinconicamente sugli spettri dell’esistenza e della memoria, attraverso la scrittura, i corpi e i volti di un film che non scorderemo. Visivamente incredibile e inaspettatamente commovente. Alice nella città

Estranei (All Of Us Strangers), adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Yamada Taichi, scritto e diretto dall’Andrew Haigh di Weekend, 45 anni e Charley Thompson, è stato presentato in anteprima mondiale al Telluride Film Festival, passando poi per il New York Film Festival ed il BFI London Film Festival, approdando infine ad Alice nella città 2023, commuovendo e conquistando il pubblico nella sua interezza.
In una Londra periferica e plumbea, che appare e non appare, vestendo dunque i panni di un vero e proprio non luogo, sempre più dalle parti del cinema sci-fi e meno del dramma, due enormi e solitari grattacieli svettano rispetto ad un’area apparentemente desolata, che non sembra affatto essere popolata, piuttosto abbandonata a sé stessa, come fosse un luogo di confino, e non di vita in libertà.

Di uno solo conosciamo gli interni. Mentre dell’altro ci è concesso osservarne solamente la facciata – esiste realmente? È un ologramma? -, spingendoci a riflettere fin da subito, sulla natura anomala di Estranei, un film dai moltissimi volti e mutamenti, capace di muoversi, suggerendolo appena, tra il dramma intimistico più sentimentale ed emotivamente centrato ed il cinema fantascientifico.
Quest’ultimo, incessantemente sospeso tra spiritualismo e crudele rappresentazione di una realtà futura, nella quale vivremo soli, osservando impotenti un passato irrisolto, del quale saremo vittime e niente più e all’interno del quale, soltanto uno sforzo intellettivo sovrumano sarà in grado di salvarci da apatia e abbandono.

Estranei (All Of Us Strangers) di Andrew Haigh - Cinematographe.it

Nel palazzo solitario che ci è dato osservare, conduce un’esistenza altrettanto solitaria, lo sceneggiatore cinematografico Adam (Andrew Scott non è mai stato così irresistibilmente dolce, malinconico, attrattivo e solido), che alle prese con un memoir familiare non smette di tornare al passato, dunque al ricordo di due genitori mai realmente conosciuti, almeno, non come avrebbe voluto, interpretativi rispettivamente da due ottimi Jamie Bell e Claire Foy.
Quello di Adam è un presente estremamente frammentato, eppure ripetitivo, che viene improvvisamente spezzato dall’incontro con Harry (Paul Mescal), l’unico altro condomino del palazzo solitario. Un giovane dall’aria confusa, se non addirittura autodistruttiva, destinato a mutare irrimediabilmente il destino di Adam, conducendolo alla crisi e forse, alla necessaria e definitiva consapevolezza del sé.

Anche i fantasmi giocano a ping pong

Estranei (All Of Us Strangers) di Andrew Haigh - Cinematographe.it

Quello che inizialmente sembra essere un atipico modello narrativo di cinema queer sentimentale, contaminato da tracce drammatico-esistenzialiste, centrato sull’incontro/scontro casuale tra due anime perdute, che attendevano soltanto di incastrare tra loro le rispettive solitudini, esplorandone il risultato, si rivela ben presto una riflessione estremamente lucida, spietatamente emotiva, dunque poetica, sul legame molto spesso travagliato, eppure sotterraneamente dolce, che lega ciascun figlio alle proprie figure genitoriali, tanto da spingerlo nel corso della vita a desiderare di comprenderle maggiormente, tentando di incontrarle ancora e ancora, nel tempo e nel ricordo, fino alla fine dei giorni.
Ecco dunque che la fanciullesca e disperata necessità di Adam di tornare alla casa d’infanzia, per sentirsi compreso, per confessare tutto ciò che non ha potuto confessare e per vivere – o rivivere? – un amore impossibile, passa inevitabilmente per quella meravigliosa, indimenticabile e profondamente commovente sequenza di Una questione di tempo di Richard Curtis, nella quale padre e figlio giocano una decisiva partita a ping pong, condividendo l’ultima spensieratezza, gli ultimi sorrisi e abbracci, prima di lasciarsi andare e non vedersi, o parlare, mai più.

Haigh, giunto al quarto lungometraggio da regista, con Estranei, dà vita ad un cinema di grande impatto visivo e dalla solidità e maturità di scrittura incredibilmente sorprendente, che tra malinconia e amorevole conforto, dimostra a sé stesso e così a noi, che perfino i fantasmi giocano a ping pong, e che per quanto possiamo credere che sia impossibile, ci è concesso tornare al ricordo, intraprendendo un viaggio nella memoria, poiché il dolore non è la destinazione, piuttosto quell’oltre, il dopo, il termine del viaggio e della notte.

Estranei: valutazione e conclusione

La prova di Andrew Scott in Estranei, è magistrale, profondamente emotiva e fisica, incarna appieno quel sentimento di ricerca, solitudine e nostalgia di un tempo sfuggito, cui il film continuamente dà vita, forte di una ricerca per immagini, che pur poggiando su di un impianto di scrittura solidissimo, sceglie di affidarsi quasi unicamente alla forza dialogica, dunque espressiva, dei corpi e dei volti di quattro interpreti in stato di grazia. Svetta tra queste, non perché protagonista del film, ma per questioni di oggettiva evidenza, Andrew Scott, mai così fragile, mai così forte.

Haigh avvolge lo spettatore in un abbraccio impossibile da dimenticare, poiché nevralgico e commovente, che culmina nell’esplosione di The Power of Love dei Frankie Goes to Hollywood, quando avremmo voluto non lasciar andare più, né l’Adam di Andrew Scott, né tantomeno il meravigliosamente confuso ed autodistruttivo Harry interpretato da Paul Mescal.

È una storia d’amore, Estranei, ma anche di solitudini, di genitori e figli e di fantasmi, che giocano a ping pong, sorridendosi e dicendosi addio.
Memorabile.

Regia - 5
Sceneggiatura - 5
Fotografia - 5
Recitazione - 5
Sonoro - 5
Emozione - 5

5