Dalíland: recensione del film di Mary Harron

La regista di American Psycho torna in sala con un altro racconto maschile, tra sguardo, morbosità e ossessione.

A distanza di cinque anni da Charlie Says, interessante prospettiva femminile sull’uomo – e non killer seriale – Charles Manson (Matt Smith), icona misteriosa e ambigua e tutt’oggi irrisolta, nonché elemento di fondo del magnifico C’era una volta a Hollywood di Quentin Tarantino e della notevole seconda stagione dell’ormai compianta Mindhunter di David Fincher, Mary Harron torna nelle sale con un nuovo film, Dalìland.

Dopo aver diretto interessanti titoli come Ho sparato a Andy Warhol e American Psycho, Mary Harron si confronta ancora una volta con un racconto maschile, mettendo da parte il crime e muovendosi tra le trame torbide, pacchiane e tragicomiche del sottobosco artistico americano ed europeo a cavallo tra gli anni ’70 e ’90 mostrando luci, ombre, perversioni (poche), bellezza e follia dell’universo simbolico, intellettuale, patinato e malinconico del leggendario pittore, scrittore, fotografo, cineasta, designer, sceneggiatore e mistico spagnolo Salvador Dalì.

James: un personaggio bertolucciano

Fin dalle primissime sequenze risulta evidente quanto Dalìland non sia affatto centrato sull’icona Dalì, bensì sul suo modo d’apparire o meglio d’essere allo sguardo altrui, che non è mai uno sguardo generico o passeggero, piuttosto quello di James (Christopher Briney), un giovane esperto d’arte che nella New York degli anni ’70 si ritrova improvvisamente catapultato nell’universo umano di Dalì, trasformandosi da semplice gallerista a vero e proprio allievo di Dalì, se non addirittura in musa ispiratrice.

James è senz’altro un personaggio che avremmo potuto trovare nel cinema di Bernardo Bertolucci, così spaesato e fiero della propria giovinezza da tralasciare le questioni più direttamente legate all’appartenenza concreta e responsabile ad un mondo adulto sempre più caotico, irrigidito da regole e convenzioni e infine ruoli da lui dimenticati e presi in considerazione in brevi attimi destinati quasi sempre a svanire in nome di una spensieratezza riflessiva e introspettiva, questa sì, senza fine.

Pur richiamando quell’idea di racconto giovanile, per scrittura e per scelta di casting, essendo Christopher Briney un volto facilmente riconducibile all’immaginario Bertolucciano, Mary Harron dimostra di non voler affatto riflettere sulla giovinezza torbida e desiderosa di esplorazioni e introspezioni, piuttosto morbosamente rispettosa di un mondo che non le appartiene, al quale però vorrebbe appartenere in tutto e per tutto, venendo fagocitato in esso, per sua e altrui volontà.

Seppur James sia la nostra guida nel mondo umano e artistico di Dalì, dunque alla ricerca costante di stimoli e sguardi, ci è impossibile osservare realmente gli angoli bui, oppure quelli magici e colorati della vita dell’artista spagnolo poiché l’unica indagine condotta fino in fondo da Dalìland di Mary Harron è quella sull’ambiguità morale del rapporto d’amore – e non – tra Salvador Dalì (Ben Kingsley/Ezra Miller) e Gala Dalì (Barbara Sukowa), musa, compagna e forse assassina di un talento oggettivo, eppure fortemente discusso e mai compreso fino in fondo, come invece sarebbe dovuto essere.

Dalì e il voyeurismo: ecco come ti spiego la mia arte

Dalìland; cinematographe.it

Al netto del fatto che questo settimo lungometraggio della Harron si ritrovi spesso a dubitare della sua stessa natura, ponendosi a metà strada tra biopic, opera documentaristica e racconto di finzione, senza mai riuscire a soddisfare appieno nemmeno uno dei tre casi, risulta interessante la riflessione su Salvador Dalì artista ossessionato dallo sguardo, dal desiderio passivo rispetto alla vita, all’amore, alla perversione e al caos.

Nulla accade per volontà di Dalì, poiché questi sembra incessantemente limitarsi alla distanza emotiva e fisica, interessandosi perciò al buco nel muro, allo sguardo attraverso la serratura nella porta e così via, senza mai prendere parte, se non attraverso il proprio corpo. Una riflessione questa decisamente Hitchcockiana.

Dalì dunque non compie alcuna azione, non permette alla vita di trasportarlo, piuttosto il contrario, subendola con distacco, Dalì osserva la vita e la realtà per poi manipolarla e conoscerla alla perfezione poiché parcellizzata e indagata maniacalmente da un desiderio voyeuristico che diventa successivamente – se non immediatamente – arte. Il merito di Dalìland è rilevabile perciò in questa scelta, mostrare l’arte di Dalì attraverso la morbosità dello sguardo e il distacco emotivo.

Una morbosità che contagia e poi respinge, rendendo amabile e subito dopo disprezzabile l’icona artistica e umana Dalì, agli occhi della compagna Gala, della musa Amanda Lear (interpretata efficacemente da una solidissima Andreja Pejić, attrice e modella estremamente particolare e molto poco vista al cinema) e del giovane appassionato, allievo e curioso James, che dall’amore giunge presto all’odio, poiché l’arte è conflitto, e molto spesso perfino codardia e schiavitù.

Ossessione: lei, lui e gli altri

Dalìland - Cinematographe.it

Desiderio voyeuristico, morbosità e ossessione. Tre elementi centrali di un film potenzialmente interessante che nell’osservare e indagare due uomini apparentemente simili tra loro, eppure lontanissimi come James e Dalì, non può far altro che poggiarsi sulla grande interpretazione di Ben Kingsley, che offre curiosamente una prova molto più fisica che verbale, lavorando di sguardi, movimenti e molto raramente di parola, augurandosi che sia sufficiente per la riuscita complessiva di un film indeciso, intimidito e nient’affatto coraggioso.

Certamente ciò che più sorprende e trasporta è la tematica dell’ossessione che ricorre per l’intera durata del film mostrando conseguenze ed effetti d’essa sull’arte e l’emotività di Dalì, che pur amando Gala, sua compagna di una vita, non può far altro che accettarne i tradimenti (sentimentali, fisici e non), subendoli passivamente e crollando dinanzi ad essi, poiché l’ossessione è più forte, poiché l’ossessione è in qualche modo perfino salvezza e fonte d’ispirazione, oltreché tormento.

Dalìland: valutazione e conclusione

Ci si sarebbe potuti – e dovuti – aspettare un film più maturo, coraggioso, sporco e folle sull’icona Dalì considerata la filmografia di Mary Harron? La risposta è sì, senza riserva alcuna. Nonostante una grande interpretazione del redivivo Kingsley infatti Dalìland dimostra di non possedere alcuna nota d’interesse, nemmeno la breve apparizione dell’ormai maledetto e perduto interprete Ezra Miller che nel fare sé stesso non aggiunge al film null’altro che bizzarria e atipicità, due condizioni comunque preesistenti.

In definitiva, così irrefrenabilmente pudico, aggraziato e già visto da impoverire totalmente la materia stessa del film e poi la memoria e il lascito dell’artista Dalì, spingendo lo spettatore a disinteressarsene appena giunti i titoli di coda, se non prima.
Dalìland distribuito da Plaion Pictures è al cinema a partire da giovedì 25 maggio 2023.

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 2.5
Recitazione - 4
Sonoro - 2.5
Emozione - 2.5

2.8