Civil War: recensione del film di Alex Garland

La recensione dell’ultimo e atteso film dal regista di Ex Machina, Annientamento e Men. Un’esperienza cinematografica tanto spettacolare e immersiva, quanto spaventosa e dolorosa. In sala dal 18 aprile, distribuzione a cura di 01 Distribution

Di fotografie rimaste impresse nella memoria collettiva globale, capaci dunque di segnare la storia, ne ricordiamo diverse, a volte nemmeno per la loro bellezza, quanto per il simbolismo e più in generale il significato di ciò che ci è dato osservare e che queste ultime non cessano mai realmente di celare e trasmettere, tanto attraverso l’amore, quanto attraverso il dolore e la tristezza. Emozioni che inavvertitamente traspaiono da un volto, un luogo o perfino un oggetto se posto in un determinato contesto, anziché in un altro.

Lo stesso si può dire del cinema, non di tutto, questo è certo, ma soltanto di qualche autore, o frammento o altrimenti percorso stilistico ben preciso e potenzialmente circoscritto ad una fase irripetibile dell’evoluzione della cinematografia e per questa ragione capace di segnare la storia, imprimendosi definitivamente nella memoria collettiva di chi guarda.

Civil War, il quinto film da regista di Alex Garland è esattamente questo, un cinema potente, spaventosamente lucido e colmo di simbolismi e significati a tal punto, da divenire ben presto, nientemeno che una dolorosa e vivida istantanea del nostro quotidiano e del nostro tempo, così conflittuale, violento, inquieto e discriminante da imprimersi una volta per tutta nella memoria cinematografica collettiva e cos’è il cinema se non una moltitudine di scatti in movimento?

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Sull’America in conflitto e il giornalismo impavido

Giungendo a ciò di cui concretamente tratta l’ambiziosa opera ultima firmata da Alex Garland, fin dalle primissime sequenze o altrimenti inquadrature, ci imbattiamo in un’America che il panorama cinematografico Hollywoodiano generalmente non ama mostrare, se non in casi di narrazione dichiaratamente post apocalittica, oppure fantasy, sci-fi o fumettistica, si pensi ad esempio ad un titolo come Io sono leggenda di Francis Lawrence. Piuttosto, quella di Civil War è un’America iper-realista, dilaniata da una tragica, violenta e (auto)distruttiva guerra civile, alimentata dalla volontà di quella figura che più di ogni altra dovrebbe garantirne l’integrità e la sicurezza, ossia il Presidente in carica.

Quest’ultimo, mostrato per pochi minuti attraverso il corpo e volto estremamente rigido e gelido di Nick Offerman, sembra non voler celare in alcun modo la provenienza nient’affatto narrativa di tali posizioni e volontà d’odio, dialogando fin da subito con i recenti accadimenti della realtà sociale e politica degli Stati Uniti d’America, estremizzando nemmeno troppo velatamente la figura dell’ex presidente uscente Donald J. Trump.

Lungo autostrade ormai inesistenti, tappezzate di corpi impiccati, fucilati ed esposti come fossero veri e propri avvertimenti o trofei, circondati da scheletri d’automobili, divorate dalle fiamme o dalle pallottole esplose senza alcuna pietà dalle armi dell’esercito governativo, un improbabile team di impavidi eppure impreparati fotografi e giornalisti di differenti età, non intende affatto arrestare il proprio peregrinare. Lo scopo di tale avventura, o per meglio dire, discesa agli inferi, corrisponde alla più alta delle volontà, ossia il tentativo di documentare gli ultimi momenti di vita del belligerante e folle Presidente degli Stati Uniti, nonché causa principale di quella stessa guerra civile, che dapprima lentamente e poi sempre più rapidamente ha inghiottito ogni civile e combattente, nella sua interminabile finalità genocida.

Lee Miller (interpretata da una rediviva Kirsten Dunst, qui nella sua prova più solida, matura e dolorosa) è una reporter di guerra piuttosto conosciuta nell’ambiente, che non casualmente porta il medesimo nome di una delle fotografe di guerra più celebrate di sempre – oltreché una delle poche donne a cui venne permesso di documentare il Secondo Conflitto Mondiale – ed è capo di un team piuttosto improvvisato, che include Sammy (Stephen McKinley Henderson), uno stimato giornalista “di ciò che resta ormai del New York Times”, tanto anziano, quanto sovrappeso, Jessie (Cailee Spaeny) una ventenne solitaria che dalla Miller vorrebbe imparare il pericoloso mestiere della reporter di guerra e Joel (Wagner Moura), veterano dell’ambiente, che sembra resistere meglio e più di chiunque altro, alle indicibili violenze e tragedie incontrate lungo la strada. Tanto da animarsi più che visibilmente nell’osservazione quasi fanciullesca e ingenua delle sparatorie e così dei bombardamenti, che non smettono di dilaniare il territorio americano, mietendo vittime su vittime, senza alcuna distinzione di sorta, dal primo all’ultimo minuto di questo grande esempio di cinema che è Civil War.

Riflettendo su alcuni nodi del film, è curioso osservare come dei new media non se ne senta affatto discutere – sono stati i primi a crollare? – e il maggior interesse e protagonismo del film, risieda proprio nell’utilizzo di quelle fotocamere analogiche che impossibilitate a registrare in digitale quanto scattato, necessitano del lento processo di sviluppo della pellicola, ricorrendo a strategie tanto elementari, quanto disperate, inevitabilmente capaci di escludere qualsiasi genere di variazione o modifica, altrimenti concessa dai moderni smartphone, colpevoli dunque di alterare la realtà, distruggendo il senso profondo della documentazione fotografica che il team della Miller intende onorare a costo della vita. Dunque ben prima d’essere un war movie dallo spaventoso iper-realismo ai limiti del cinema documentaristico – come se un giovane Michael Moore avesse deciso di lavorare ad una sua personalissima versione di The last of us, forte di suggestioni proprie dell’immaginario di autori quali Werner Herzog e Cormac McCarthy -, Civil War è cinema giornalistico.

Ed è proprio guardando al panorama cinematografico internazionale degli ultimi anni che si ha l’evidenza della totale unicità di un’operazione come Civil War, poiché non c’è mai stato qualcosa di così accurato, dinamico, maniacale e profondamente calato nello scenario in cui tutto accade, mentre il protagonista stesso, raccontando osserva corpi, pozze di sangue, lacrime, città date alle fiamme e strade lastricate di ordigni inesplosi e morte. Se è vero che la spettacolarità e così l’impianto visivo di Civil War hanno un peso ben specifico e per certi versi primario sul resto del film, è altrettanto vero che Garland, ancor prima dell’action e dell’adrenalina, concentra la propria narrazione sul significato profondo del dovere di cronaca e sull’importanza della prova fotografica, che nonostante il dolore, nonostante la morte e l’inevitabile capacità d’adattamento del giornalista o fotografo che sia, a queste ultime, sopravvive al tempo, al susseguirsi delle generazioni e così dei conflitti, nella speranza di un miglioramento che Garland, autore dallo sguardo e dalla scrittura disperatamente realista, non sembra affatto osservare, tanto nell’universo fittizio di Civil War, quanto nel nostro presente e immediato futuro.

Civil War: valutazione e conclusione

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Estremamente stratificato e contaminato da più linguaggi, dalla distopia, al dramma, fino al post apocalittico e come detto al cinema documentaristico -, Civil War intraprende presto la via del western, mettendo in luce senza mezzi termini quanto il conflitto in atto sia stato causato esclusivamente da banalità e da posizioni d’odio e violenza spaventosamente osteggiate da numerosi stati, mentre da altri denunciate. Da qui la salvezza o la morte a seconda del luogo dal quale provieni, una delle molte situazioni ricorrenti e profondamente ansiogene del film di Garland. I giornalisti divengono cowboy e la morte un accadimento come un altro, rispetto al quale lasciarsi andare ad un breve pianto, per poi proseguire il cammino, quasi come se nulla fosse.

Civil War in qualche modo è un Twister riuscitissimo sulla guerra, che pone al centro dell’interesse non più l’adrenalina e la paura generate dai tornado, piuttosto il realismo violento e disperato scaturito da una guerra civile sfortunatamente nient’affatto estranea rispetto alla realtà socio-politica che quotidianamente osserviamo e subiamo, resa da Garland un’esperienza cinematografica profondamente immersiva sotto ogni punto di vista e per questo senza alcun possibile precedente.

Sulla capacità che è propria della fotografia di cambiare la percezione del conflitto, risvegliando le coscienze e sulla spaventosa manipolazione del trauma che rende perfino gli individui più sensibili e partecipi, dei semplici spettatori, poiché tutto diviene osservabile e alla nostra capacità d’adattamento al male, segue l’annullamento dell’emotività, dunque la lenta ma inevitabile trasformazione di chiunque ne faccia parte, in vittime inconsapevoli di un conflitto invece ben più che consapevole e proprio per questa ragione, tanto inquietante e spietato, quanto futile.

Per noi, fin da ora, Civil War di Alex Garland è un instant cult!
Civil War è al cinema a partire da giovedì 18 aprile 2024, distribuzione a cura di 01 Distribution.

Regia - 4.5
Sceneggiatura - 4.5
Fotografia - 4.5
Recitazione - 4.5
Sonoro - 4.5
Emozione - 4.5

4.5