Cimitero Vivente (1989): recensione del film

Cimitero Vivente del 1989 è un piccolo gioiellino che gli amanti del cinema horror e che i fan di Stephen King non possono farsi scappare.

Esistono film di genere non perfetti, con difetti evidenti, ma che riescono comunque a ritagliarsi un posto nell’alveo dei cult imprescindibili. In questo gruppo rientra Cimitero Vivente, film del 1989, diretto da Mary Lambert e celebre adattamento del romanzo di Stephen King Pet Sematary pubblicato nel 1983. Gli adolescenti degli anni ’90, amanti del brivido, con probabilità avranno visto per la prima volta questo titolo nella celebre rubrica “Notti Horror” di Italia 1, i neofiti magari l’hanno recuperato dal catalogo Amazon Prime Video, ma tutti avranno notato come, nonostante una sceneggiatura a volte lacunare e un ventaglio di interpretazioni caricate, Cimitero Vivente sia un piccolo gioiellino che racconta al meglio quel che il cinema horror realizzava a fine anni ’80.

Cimitero vivente Cinematographe.it

La storia è quella della famiglia Creed, che nelle primissime sequenze di Cimitero Vivente seguiamo in auto mentre si dirigono nella loro nuova cittadina di campagna, Loudlow nel Maine. I Creed si trasferiscono perché il capofamiglia, ha ottenuto un nuovo incarico come medico della scuola locale. La nuova casa dove andranno a vivere Louis, sua moglie Rachel e i due figli Ellie e Gage sorge a pochi passi da un cimitero degli animali oltre il quale è meglio non andare: su quel territorio infatti ci sono diverse leggende che parlano di un cimitero indiano con poteri sovrannaturali che riescono a riportare i morti dall’aldilà.

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La felicità di questa famigliola è costantemente messa in discussione a causa di strane visioni, un giovane che Louis non è riuscito a salvare e i ricordi della sorella di Rachel, deceduta per una rara malattia che deforma le ossa. In più la strada davanti casa è una minaccia costante perché percorsa da camion ad alta velocità: Churchill, il gatto di famiglia, amato dalla più piccola di casa, presto ne sarà vittima. Per evitare di far conoscere in modo precoce la morte alla piccola Ellie, Louis insieme al vicino di casa Jud, troveranno una soluzione alternativa…

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Cimitero Vivente: il terrore cresce nella semplicità della messa in scena della seconda metà del film

È tutta questione di essenza: gli stacchi di montaggio irruenti, la presentazione didascalica della famiglia medio-borghese americana, i momenti stereotipati non influiscono sull’atmosfera malsana e angosciante che si respira in Cimitero Vivente. Il nucleo centrale della storia è la paura della morte e l’elaborazione del lutto che drammaticamente finisce nella non-accettazione della morte di un figlio. Il terrore cresce e nella semplicità della messa in scena della seconda metà del film, il brivido si insinua come anche tutte quelle paure inconsce che affliggono l’essere umano da sempre. Il dolore, la disperazione e l’attesa che la sensazione di vuoto che la morte lascia dietro sé vada via sono ben introiettati dallo sguardo del protagonista, Dale Midkiff, che riesce a dare un volto alla follia.

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Complice di questa atmosfera che ha reso Cimitero Vivente un piccolo cult è l’argomento universale dell’accettazione del lutto, inserito in contesto sovrannaturale che si mischia lievemente anche con la storia dei nativi americani. Stephen King ha raccontato che l’idea del romanzo gli è venuta quando il gatto di famiglia è deceduto e lui ha dovuto affrontare la reazione della figlia, assolutamente non pronta ad accettare questa perdita. Tra le altre cose Cimitero Vivente è uno di quegli adattamenti che Stephen King digerisce (Shining di Stanley Kubrick ad esempio lo disprezza), tanto che in una sequenza girata durante un funerale c’è anche un cameo dello scrittore di Portland.

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Cimitero Vivente: l’idea di utilizzare il volto di un bambino di 3 anni per inscenare le scene più truculente non ha prezzo

Bellissimi gli effetti speciali artigianali (la fuoriuscita del cervello di Victor Pascow è iperrealistica, come il celebre taglio al calcagno fatto col bisturi) che fanno rabbrividire e quel make-up realizzato sulla presenza fanciullesca che ritornerà dalla morte con sete di sangue. L’idea di utilizzare un certosino indemoniato e il volto di un bambino di 3 anni per inscenare le scene più truculente non ha prezzo e lascia un velo d’angoscia addosso dopo la visione. Famosissima anche la colonna sonora del film in cui è inclusa la canzone Sheena Is a Punk Rocker/I Don’t Care e il celebre brano Pet Sematary entrambe del gruppo punk rock Ramones, la seconda è stata appositamente incisa per i titoli di coda del film.

Regia - 3
Sceneggiatura - 2
Fotografia - 2
Recitazione - 2
Sonoro - 4
Emozione - 4

2.8