Giulio Base: “Il primo amore è stato il teatro, poi ho sposato il cinema”

Ospite della tappa di San Vito dei Normanni della 18esima edizione del Sa.Fi.Ter, dove ha presentato e ricevuto un importante riconoscimento per Bar Giuseppe, Giulio Base ci ha raccontato e si è raccontato dagli esordi sino ai giorni nostri.

In una calda e torrida serata salentina di fine giugno, a margine della proiezione di Bar Giuseppe nel ricco programma della 18esima edizione del Sa.Fi.Ter, abbiamo incontrato e dialogato con Giulio Base. Intervenuto nel corso della terza tappa della kermesse itinerante pugliese fondata e diretta da Romeo Conte, a pochi metri dall’arena a cielo aperto allestita in una delle piazze più suggestive di San Vito dei Normanni, abbiamo intervistato il regista, sceneggiatore e attore piemontese. Un’intervista che ci ha dato l’opportunità di ripercorrere la sua carriera dagli esordi sino ad oggi, focalizzando l’attenzione su temi, stilemi e sul suo modo di concepire la regia e la recitazione.

La nostra intervista a Giulio Base, regista e attore a 360°  

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Giulio Base riceve il Premio Sa.Fi.Ter 2021 per “Bar Giuseppe” (© Eddie- Daniele Notaristefano)

Cosa ti ha lasciato il periodo di formazione alla Bottega Teatrale, fondata e diretta da Vittorio Gassman dal 1979 al 1991, che è stata una protagonista del mondo culturale fiorentino?

Tantissimo, perché le scuole formano lo spirito di gruppo che secondo me è molto importante nello sviluppo della carriera, sia per quanto riguarda il teatro che per come è andato poi il mio percorso professionale nel cinema. Ma anche perché Vittorio Gassman era ed è rimasto un faro illuminante.  Mi innamorai del teatro giovanissimo e in quegli anni usciva la sua auto-biografia dal titolo Un grande avvenire dietro le spalle, che divorai leggendola tutta d’un fiato. In quei giorni era in scena a Torino con l’Otello, che vidi la bellezza di dodici volte su altrettante repliche, andandolo sempre a trovare nei camerini al termine degli spettacoli. Poi feci il provino alla Bottega Teatrale, dove era molto difficile riuscire ad entrare, perché era molto ambita e dava una borsa di studio congrua per quegli anni. Infatti, su seicento richieste ne venivano accolte solo dieci. Passai il provino, diventai un suo allievo e mi fece anche debuttare in un suo spettacolo, ossia Misteri di San Pietroburgo. Con lui ho avuto un rapporto a 360°. Penso senza falsa modestia di essere stato un suo amico e anche l’ultimo regista che lo ha diretto sul grande schermo, nel film La bomba, dove interpretava il vecchio padrino Don Vito Bracaloni. In più il mio primo genito si chiama proprio Vittorio.

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Giulio Base e Vittorio Gassman sul set di “La bomba”

Questo per dire che il mio punto di riferimento in qualche modo resta sempre lui, con la sua capacità straordinaria di passare dal basso all’alto senza soluzione di continuità, dal sublime all’osceno in un battito di ciglia, facendo di giorno le pernacchie nello spettacolo televisivo Il Mattatore, mentre la sera andava in scena al Teatro Valle con l’Amleto da lui tradotto. Era un grandissimo esempio di generosità, cultura, bellezza inarrivabile, classe, voglia inarrestabile di fare e curiosità. Questi rappresentano i miei punti fondanti, nei quali continuo a credere. E spero di avere assorbito un po’ di tutto questo negli anni trascorsi insieme a lui, che rappresentano per me un patrimonio inestimabile”.  

Giulio Base: “Guardandomi dentro, compresi che se il cielo mi aveva dato un qualche tipo di talento, allora era proprio nella regia” 

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Giulio Base sul set di “Bar Giuseppe”

Quanto il lavoro di attore ha influenzato il tuo essere regista e viceversa? Queste due dimensioni sono mai entrate in conflitto nell’arco della tua carriera?

Agli inizi si. A 19 anni mi trovavo attore, con la patente de la Bottega alle spalle e uno spirito solerte e volenteroso che mi veniva dall’essere nato e cresciuto a Torino in una cultura sabauda del fare, per di più da figlio di meridionali emigrati al Nord spinti da un grande desiderio di lavorare e di riscatto. Motivi per cui non riuscivo a stare fermo ad aspettare una chiamata e mi sono “inventato” regista, per la precisione più una sorta di primus inter pare in un gruppo di amici e colleghi. E da lì nacque Crack, lo spettacolo teatrale dal quale è poi nato il mio primo film. Fu un’esperienza, più simile a quella di un metteur en scène, che mi fece capire quanto più a mio agio ero con quel modo approcciarmi al lavoro. Guardandomi dentro, compresi che se il cielo mi aveva dato un qualche tipo di talento, allora era proprio nella regia. Mentre come attore c’era sempre qualcosa che mi frenava e mi faceva sentire che ci fosse sempre qualcuno più bravo di me, al contrario da dietro la macchina da presa avvertivo la sensazione di poter dire la mia.

È innegabile che avendo una formazione da interprete era inevitabile che le prime cose da regista fossero molto incentrate sulla figura dell’attore e sulla sua direzione. L’esordio fu per me una sorpresa assoluta e una scoperta continua, perché ero un regista autodidatta e non sapevo nulla di cinema. All’epoca Nanni Moretti vide lo spettacolo, ci fece prendere l’allora articolo 28, per poi passare per motivi di salute il testimone a Claudio Bonivento, che produsse il film e mi convinse a dirigerlo. E proprio il primo giorno di set di Crack capii che quello del cineasta era quello che sapevo fare e che avrei voluto continuare a fare”.

Giulio Base: “continuo a rimanere uno spettatore innamorato dei film che vedo e che porto sullo schermo”

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Giulio Base incontra il pubblico di San Vito dei Normanni nella terza tappa del Sa.Fi.Ter 2021 (© Mara Giammattei)

Nel tempo come si è poi evoluto il tuo cinema e il tuo approccio alla regia?

Sicuramente c’è stata un’evoluzione. La prima infatuazione è stata per il teatro, ma poi ho sposato il cinema, che è diventato a tutti gli effetti l’amore della mia vita. E quindi sia nel farlo, che nel guardarlo, perché continuo a rimanere uno spettatore innamorato dei film che vedo, penso di essermi affinato nel corso degli anni. In tal senso la sola concentrazione sugli attori è andata un po’ scemando, pur rimanendo la direzione degli interpreti una delle mie caratteristiche importanti. Ma soprattutto, non tanto per la messa in scena che alle volte è necessaria e altre no, piuttosto per la comunicazione con gli attori con i quali mi trovo a collaborare. Senza dubbio parlo la loro stessa lingua e questo mi è rimasto,  però il mio cinema – credo e spero – è andato evolvendosi verso forme in cui viene più in mente il racconto e se vuoi l’urgenza, la necessità, l’etica e la morale, che c’è dietro il film che vado a realizzare”.

Quando invece ti trovi davanti la macchina da presa e torni a fare l’attore, cosa guida le tue scelte nell’accettare un ruolo piuttosto che un altro?

Con tutta sincerità ti dico che come attore sono molto meno selettivo di come al contrario sono da regista. Nel senso che sono molto più ben disposto e a guidarmi c’è anche la voglia di mettermi a disposizione di quei colleghi che trovano nel Base interprete un contributo alla causa, indipendentemente che si tratti di autori con meno esperienza o di nomi importanti, come è accaduto ad esempio con Luchetti (Il portaborse), Moretti (Caro diario) o Mazzacurati (La lingua del santo). Quando capita di tornare a recitare tendo ad affidarmi completamente, perché da regista a mia volta so che al timone c’è e ci deve essere una sola persona. Quindi è importante stare al proprio posto e tutte le volte che vengo chiamato a fare l’attore è la prima cosa che chiarisco con chi mi offre un personaggio. Se parli a qualcuno mentre guida, al di là che sia un esperto guidatore oppure no, puoi distarlo. E questa è una cosa che non voglio assolutamente fare. Se poi viceversa sei tu regista a venirmi a chiedere un consiglio, un aiuto o un pensiero, allora ok, altrimenti dove mi metti lì sto, perché so esattamente di che la visione totale dell’opera resta solo e soltanto quella del regista. Questi per dire che mi metto a completa disposizione di chi mi sceglie come attore”.

Giulio Base: “Il banchiere anarchico è stato un rebound che mi ha permesso di tornare a fare il cinema che amo”

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“Il banchiere anarchico” di e con Giulio Base

C’è un’opera della tua filmografia cinematografica o televisiva che non è stata compresa e quella che invece è andata al di sopra delle tue aspettative?

In passato mi sono spesso arrabbiato rispetto a quello che leggevo, poi in maturità, da una decina di anni a questa parte, sorrido e cerco di trarre delle lezioni dalle critiche che vengono rivolte ai miei film. Rimango però fermo su quelle ferite di trent’anni fa che ancora fanno male, quando ero un giovane regista di 24 anni al suo esordio. Se ripenso a quello che all’epoca ho letto su Crack, ricordo una cattiveria che ancora oggi non mi spiego. Davvero non so cosa accadde quella volta, la sola cosa che so è che la stampa fu davvero esagerata. Fu per me davvero un KO, perché ritenevo di avere fatto una buona opera prima, tant’è che vinse al Festival di San Sebastian e ottenne candidature ai Nastri d’Argento e ai David di Donatello. Poi però il giorno dopo la presentazione alla Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia aprii le pagine dei giornali e lessi delle cose davvero violente, a mio parere ingiuste. Motivo per cui tutto sommato lo ritengo ancora oggi un film poco compreso.

Diversamente un film che è andato ben al di sopra delle mie aspettative rispetto a come era partito è sicuramente Il banchiere anarchico. Si tratta di un’opera fatta con poche decine di migliaia di euro, realizzata nel periodo meno fortunato della mia carriera. Non mi vergogno a dire che stavo un po’ con l’acqua alla gola, venivo dall’insuccesso di La coppia dei campioni e lavoravo poco con il telefono che aveva smesso di suonare, per cui accettai di prendere parte a dei programmi per il piccolo schermo come Notti sul ghiaccio e L’isola dei famosi per portare avanti la famiglia. Poi uscito da lì decisi di fare il rilancio della follia, firmando la regia di un film difficile, esoterico e criptico, ostico e con pochi soldi, senza cast e soli due personaggi in scena chiusi in una stanza, tra cui uno dei due lo interpretava il sottoscritto. E nonostante la forza del testo e la convinzione che potesse regalare delle emozioni, non pensavo potesse avere un simile riscontro. Di fatto c’è stato un vero e proprio rebound che mi ha permesso di tornare a fare il cinema che amo e ad avere una certa continuità, con un film ogni anno e mezzo circa”.    

Giulio Base: “è impossibile fare qualcosa di nuovo nel presente, perché tutto è già stato raccontato”  

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Giulio Base e Francesco Pannofino sul set di “Il pretore”

Spesso nel tuo cinema e nelle serie che hai diretto, penso ad esempio a Pompei o San Pietro, c’è quasi sempre uno sguardo e una certa attenzione rivolta al passato. Guardi spesso al passato perché non ritieni il presente altrettanto interessante da raccontare?

“Per risponderti ritorno a Gassman e al faro del quale abbiamo parlato in precedenza. Lui diceva che dopo L’Iliade e l’Odissea, nessuno ha più inventato nulla. Come dargli torto. Se vai a vedere in quei due poemi c’è tutto: sentimenti, azione odio, amore, violenza, commedia, tragedia, incesto, battaglie e horror. Insomma è impossibile fare qualcosa di nuovo nel presente, perché tutto è stato raccontato. Semmai è il modo in cui puoi declinarli a cambiare. Faccio l’esempio di Bar Giuseppe, in cui racconto la storia delle storie, rifacendomi all’originale, ma ambientandola nel presente. Stessa cosa per Il pretore, nel quale era chiara la volontà di parlare dei vizi e delle follie di un pretore di provincia, che non sono tanto diversi da quelli che si possono vedere al giorno d’oggi”.   

C’è un filo rosso che consciamente o inconsciamente percorre la tua filmografia?

Penso che ci sia ed è la domanda che io o i miei personaggi di volta in volta si poniamo rispetto a cosa c’è oltre a quello che vediamo e tocchiamo. Quindi il passaggio con il trascendente, che però non è solo nei temi religiosi. Faccio l’esempio de La bomba, un film che è giocato proprio sul cosa è vero e cosa no. Credo che il mio cinema ruoti e si sviluppi proprio intorno a questo. Qualcosa che ciclicamente torna sempre”.   

Giulio Base, un regista e un attore oltre le etichette

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Giulio Base e Omar Sharif sul set di “San Pietro”

A proposito di tematiche religiose, hai spesso diretto serie o film che si rifacevano ad esse: da Padre Pio a Maria Goretti e San Pietro. Come sei riuscito a smarcarti dalle etichette?

Mi hanno battezzato il regista di Santi, ma devo dirti che a me questo titolo non è mai dispiaciuto, perché se ci pensi bene prima del cinema e della fotografia ci sono millenni di storia di civiltà umana che è quasi sempre stata sacra. Da parte mia nel filone ho sempre cercato di fare cose differenti. Ma in generale le etichette sei costretto a prendertele, ma nel frattempo puoi continuare a fare quello che credi sia giusto fare. Per quanto mi riguarda penso di avere fatto davvero di tutto: dal cine-cocomero come hanno definito La coppia dei campioni sino al cinema d’autore duro e puro con Il banchiere anarchico”.