Barbara Ronchi si racconta tra film e famiglia: “Non vivo per il lavoro”

La nostra intervista all’attrice vincitrice quest’anno del David di Donatello e del Nastro d’Argento, madrina del Pigneto Film Festival, che ci ha raccontato della sua carriera, dell’amore per la sua famiglia e per il suo lavoro

Un periodo davvero felice per Barbara Ronchi, attrice dotata di una grazie particolare e di tanto talento: dopo il David di Donatello vinto per la sua interpretazione in Settembre di Giulia Louise Steigerwalt, dedicato con grande dolcezza agli uomini della sua vita, il compagno e il figlio, giorni fa è arrivato anche il suo primo Nastro d’Argento per il ruolo di Marianna Mortara in Rapito del Maestro Marco Bellocchio che ha fatto incetta di premi: per la regia, la sceneggiatura, il montaggio, il migliore attore non protagonista Paolo Pierobon e per il giovane talento Leonardo Maltese. Tanti i film da protagonista negli ultimi due anni, in Mondocane di Alessandro Celli, in Io sono Babbo Natale, accanto a Gigi Proietti nella sua ultima interpretazione, in Sulle nuvole diretta da Tommaso Paradiso, e in Era ora di Alessandro Aronadio. E l’abbiamo vista anche nella serie Rai Imma Tataranni – Sostituto Procuratore nel ruolo della dolce e imbranata Diana. In questo periodo è sul set del prossimo film di Ficarra e Picone insieme a Maria Chiara Giannetta.

Abbiamo intervistato Barbara Ronchi che in questi giorni è la madrina del Pigneto Film Festival, diretto da Andrea Lanfredi, che ha accolto anche quest’anno tutti gli appassionati di cinema in cinque diverse location del quartiere del Pigneto ad assistere a film e anteprime e a incontrare attori ed autori durante una serie di eventi, tutti ad ingresso gratuito.

Mi piaceva l’idea di fare da madrina al Pigneto Film Festival”, ci ha detto l’attrice, “perché questa manifestazione oltre al fatto di proiettare gratuitamente film nelle sale intorno al Pigneto, dà la possibilità a dei filmmaker italiani e stranieri di girare dei cortometraggi mettendo a disposizione tutto quello che serve. È un festival di quartiere che invita le persone ad andare al cinema, però nel frattempo il quartiere stesso diventa un set cinematografico, e questa è una cosa molto bella. In un momento storico così critico per le sale cinematografiche italiane i festival di quartiere come il Pigneto Film Festival hanno il merito di avvicinare le persone alla cultura in modo gioioso e semplice, di essere un punto di incontro dove poter discutere e ascoltare, conoscere persone nuove e riscoprire la bellezza di vedere un film tutti insieme come una vera comunità”.

La nostra intervista a Barbara Ronchi

Barbara Ronchi, cinematographe.it

Per te è stato un anno speciale, prima il David di Donatello poi il Nastro d’Argento…
È stato un anno magico, quando fai un film non sai esattamente che vita avrà, come andrà, invece io mi sono ritrovata ad avere la fortuna di essere in due film così agli antipodi, Settembre, un’opera prima, e Rapito, un film d’autore di un regista conclamato, però entrambi sono stati fondamentali per la mia vita artistica”.

Il successo è arrivato dopo tanti anni di gavetta, tanto studio e teatro, come vivi questo momento?
Non ho mai pensato al successo come il fine del mio lavoro, dopo la laurea in archeologia ho iniziato l’Accademia Silvio D’Amico perché credevo che fosse giusto fare tre anni di formazione in cui capire se davvero l’attrice era quello che volevo fare nella vita. Mi sento di dire di aver avuto un percorso giusto perché è quello che fanno la maggior parte degli attori: frequenti una scuola, inizi col teatro, poi fai delle piccole parti in televisione e al cinema, poi magari qualcuno ti viene a vedere a teatro e ti propone di fare un provino e gradualmente cominci a interpretare ruoli più grandi, e sei fortunato se poi riesci a vivere di questo lavoro. È un lavoro fatto di alti e bassi, e io ne ho avuti tanti, quello che il pubblico vede da fuori sembra una vita di agi, ma solo pochi vivono anche questa parte più “scintillante” del lavoro, e anche questa può essere solo una fase. L’importante è essere consapevoli del fatto che il successo va e viene”.

Barbara Ronchi: “Non vivo per il lavoro”

E tu sei riuscita sempre a mantenere un equilibrio tra alti e bassi?
Io mi sono sempre sentita fortunata sia quando facevo le tournée a teatro sia nei piccoli ruoli. Poi quando c’erano i momenti vacanti di solito facevo altro, sentivo che comunque potevo nutrire il mio lavoro anche viaggiando o leggendo un libro, semplicemente vivendo. Non mi sono mai depressa quando non lavoravo, forse perché non vivevo per lavorare, vivevo per vivere. Sentivo però che il mio percorso anche se fatto di ruoli minori comunque mi faceva crescere, mi ha fatto incontrare degli attori incredibili da cui io ho imparato molto in questi anni: Pierfrancesco Favino, Alessandro Borghi, Kim Rossi Stuart. Questo mi ha permesso di avere più consapevolezza di me come attrice. Se il successo arriva da giovane secondo me o hai la testa, la capacità per guardare avanti ed essere saldo, o altrimenti ti può far perdere di vista l’obiettivo e pensare che quella sia la normalità, e invece non è così, la normalità è che è il successo può non arrivare mai”.

In Rapito, tratto da una storia vera, hai interpretato Marianna Mortara, una donna ebrea alla quale nel 1851 viene strappato via il figlio di sette anni per ordine dello Stato Pontificio perché è stato segretamente battezzato da una balia quando aveva pochi mesi e di conseguenza “appartiene” al Papa. Nella scena in cui lo rincontri dopo tanto tempo hai dato una prova intesa e straziante del dolore e della rabbia di una madre di fronte a un figlio che non può più accudire, che per le leggi degli uomini non può crescere con la sua famiglia. Che sfida è stata per te come attrice e da madre cosa hai provato?
Io ho pensato che quando ti portano via la persona più importante della tua vita l’unica cosa che forse ti rimane è la tua dignità, nella scena che citi questa donna aveva davanti a sé i suoi “carcerieri”, le persone che gli avevano portato via suo figlio e quello che pensavo era che non avrebbe mai permesso di farsi vedere debole davanti ai loro occhi perché non se la meritavano. L’odio era talmente forte e la rabbia era talmente repressa ma viva che se avesse potuto avrebbe rapito quel bambino a sua volta, ma non poteva, perché sarebbe andata contro le leggi create dagli uomini per gli uomini. Io sono mamma di un bambino che ha quasi la stessa età di Edgardo quando è stato rapito, e ti posso dire che per tutto il tempo ho cercato di non pensare al fatto che fossi madre e di non pensare che avessi un figlio perché mi faceva troppo male e perché mi rendeva troppo debole. Quindi da attrice ho giocato proprio di immaginazione, ho cercato di creare un distacco tra la mia vita privata e la vita sul set perché altrimenti non ce l’avrei fatta. Io non riuscivo a parlare di questa storia senza piangere, cercavo di girare le scene con grande dignità e poi piangevo dopo. La cosa incredibile è che poi quando ho rivisto il film mi sono resa conto che io piangevo anche durante però non me ne accorgevo, era come se il mio corpo andasse da solo in quella direzione, cercavo di trattenere le lacrime però scendevano da sole”.

Barbara Ronchi su Rapito e Fai bei sogni:“Bellocchio, un regista che ama gli attori”

Barbara Ronchi, cinematographe.it

È la seconda volta che sei diretta dal Maestro Marco Bellocchio, che esperienze sono state per te?
Quando ho girato Fai bei sogni ero appena uscito dall’Accademia, ero poco più di una ragazza e quello era un personaggio leggero, luminoso, che viveva nei ricordi del bambino protagonista, forse era anche idealizzato, invece Marianna Mortara è un personaggio assolutamente terreno. Aver incontrato Marco Bellocchio dopo qualche anno con le esperienze sia di vita che di lavoro che ho fatto è servito per arrivare a interpretare Marianna Mortara che è un personaggio più complesso di quello di Fai bei sogni. Ritornare a lavorare con Bellocchio è stato un regalo perché lui gli attori li ama davvero. Quello che secondo me tocca gli spettatori dei suoi film è che riesce sempre a raccontare degli aspetti privati dei personaggi che racconta, riesce sempre ad arrivare al cuore della faccenda, perché poi quello che ci emoziona non sono le storture dello Stato come succede in Rapito ma anche in Esterno Notte, quelle sappiamo tutti che esistono e non ci possiamo fare niente, ma quello che succede nell’animo umano, anche al grande statista, quello lo possiamo capire tutti, è lì che mira, mira a raccontare questi grandi sentimenti, come possono essere quelli dello statista sequestrato e del bambino rapito di 7 anni”.

Durante la premiazione dei Nastri d’Argento hai dichiarato che Rapito è stato un grande lavoro di squadra, è importante ricordare quante persone ci sono dietro a un film…
Era come sei fossimo davvero una compagnia teatrale che si muove tutta insieme, col direttore delle luci, col direttore di palco, con tutti gli attori che fanno squadra e con il regista che li dirige, tutti quanti siamo stati accordati. Ovviamente tanti attori non si sono mai incontrati, per esempio io non ho girato scene con Fabrizio Gifuni o con Paolo Pierobon, eppure vedi l’occhio del regista che riesce a seguire tutti, riesce a essere veramente un grandissimo direttore d’orchestra perché sembra che recitiamo tutti nello stesso modo, è lui che ci ha accordato. Questo è quello che avviene sul set e poi c’è tutto quello che succede fuori dal set, si aggiungono le musiche, come quelle bellissime di Rapito di Fabio Massimo Capogrosso, il montaggio che sorprende anche noi attori quando vediamo il film, come quello nella scena finale di Rapito che ci ha commosso molto, opera di Francesca Calvelli e Stefano Mariotti, o la luce che ha illuminato ogni scena come se fosse un quadro, frutto del lavoro di Francesco Di Giacomo. Poi è vero che la forza di un film è la forza di tutta una squadra”.

In passato hai fatto tanto teatro, sei stata diretta da Carlo Cecchi per esempio, quando ti vedremo di nuovo sul palco?
Mi piacerebbe tantissimo e ho avuto anche delle bellissime proposte, però dopo lunghe riflessioni ho pensato che non è ancora il momento giusto, ma non per la mia carriera, per mio figlio perché ha cinque anni, tra poco andrà alle elementari e io voglio seguirlo e stare con lui. Io amo il mio lavoro, ma amo anche mio figlio e la mia famiglia. Fare uno spettacolo significa andare in tournée, e ora non è il momento, magari più avanti quando sarà più grande. Il lavoro e la vita si mischiano continuamente e le persone che ci sono vicino e che amiamo vanno tutelate da tutto questo bailamme che abbiamo intorno noi attori. Io quando sono sul set sono il personaggio ma appena sono a casa torno a essere Barbara. Quando ho girato Rapito sono stata lontana da mio figlio tre settimane, il periodo più lungo che ho trascorso senza stargli vicino, ma per quel lavoro sentivo che dovevo forzare il mio cuore e fare un sacrificio per entrambi. Io e il mio compagno, anche lui è un attore, cerchiamo il più possibile di alternarci, quindi quando lavora uno non lavora l’altro in modo che ci sia una continuità nella routine familiare. Appena può mio figlio viene sui set, lui la prende come un gioco, però sa benissimo che è un lavoro e che ho bisogno di una certa concentrazione”.

Barbara Ronchi, cinematographe.it
Barbara Ronchi in una scena di Rapito di Marco Bellocchio

Cosa ti auguri per il tuo futuro di attrice?
Io spero che la mia carriera continui ad andare in questo senso, cioè che io riesca ad alternare le commedie che amo fare, come le commedie umane, a film più drammatici, se io riuscissi ad alternare i registri come ho sempre fatto mi sentirei un’attrice fortunata perché non saprei dedicarmi di più a uno rispetto all’altro, io sono entrambe le. Poi a me mi piacciono moltissimo i film storici, i film in costume sono forse le cose che amo di più in assoluto. Per esempio mi piacerebbe tantissimo interpretare Maria Montessori, la sua è una storia meravigliosa, mi appassiona l’amore smodato che aveva per il lavoro, per i bambini, di contrasto a una vita familiare così complicata, è una storia che mi ha sempre commossa”.

In Settembre insieme a Thony avete interpretato due amiche che si scoprono innamorate l’una dell’altra, il loro è un amore puro e sincero, ma le relazioni tra persone dello stesso sesso purtroppo nella nostra società ancora faticano ad essere accettate. Le famiglie omogenitoriali, ad esempio, subiscono attacchi gratuiti e sono vittime di provvedimenti disumani da parte dello Stato, come sta accadendo in questi giorni a Padova dove è in atto la revisione degli atti di nascita di 33 bambini nati in famiglie con due mamme. Pensi che il cinema con storie come quella di Settembre possa sensibilizzare il pubblico? Col tempo potrebbe essere fautore di un cambiamento culturale?

Io penso che il cinema in quanto settima arte abbia il dovere di farlo. Sai, il cinema ti fa divertire, e se ci pensi il termine divertire viene da divertere, che significa cambiare, cambiare punto di vista. Tu guardi un film che sembra che parli di altre persone, sembrano lontane da te e invece ti immedesimi, e capisci cosa sta provando il personaggio sullo schermo, quindi secondo me il cinema ha assolutamente la possibilità di far cambiare punto di vista”.

Sei nel nuovo film di Ficarra e Picone che stai girando proprio in questo periodo per la regia di Francesco Amato su cui però non puoi dirmi nulla, ma puoi accennarmi qualcosa su altri film in cui ti vedremo?
Prossimamente usciranno due film in cui sono protagonista, Dieci minuti diretto da Maria Sole Tognazzi, e Non riattaccare di Manfredi Lucibello”.