Da Rocco Papaleo a Nanni Moretti: il cinema italiano autoreferenziale e comunista

Analizziamo alcuni film italiani usciti al cinema di recente e accomuati da un fil rouge di comunismo e autoreferenzialità.

Fare un film non equivale a vivere. Il cinema, però, può renderci la vita migliore e, in certi casi, può essere un mezzo attraverso il quale indagare nella nostra esistenza.
Forse mai come in questa stagione la settima arte si è fatta autoanalisi personale e storica; il pubblico, che pure è rimasto estasiato da certi lungometraggi di recente uscita, sembra piuttosto essere stato messo da parte: a emergere su tutto e tutti l’io lirico del regista che imperterrito e sovrano ha sentito la spinta propulsiva di creare, in modi differenti e tutti altrettanto meravigliosi, un’opera che rispondesse innanzitutto a una domanda interiore, che concretizzasse con urgenza uno status sentimentale e sociale.

A Hollywood è stato Steven Spielberg con il suo The Fabelmans ad aprire il sipario su questo microcosmo, portando in sala alla fine del 2022 un film intimo e meravigliando o infastidendo chi non si aspettava una tale apertura da parte dell’autore di E.T. – L’Extraterrestre.
È tuttavia tra i confini del cinema italiano che questa tendenza ha preso il sopravvento, facendo convergere una serie di lungometraggi che sembrano essere legati da un autentico filo rosso fatto di introspezione e spesso intarsiato di comunismo; lettere malinconiche irrorate di divertente nostalgia per ideali che adesso sembrano essersi polverizzati, per assiomi che si sgretolano sotto i colpi dell’età che avanza e che chiama a sé bilanci.

L’introspezione italiana che parte da Gabriele Salvatores: il cinema, il doppio, i vecchi e i giovani

rocco papaleo nanni moretti cinematographe.it

Se oltreoceano abbiamo citato Spielberg, focalizzandoci sulla cinematografia italiana non possiamo che porre a paragone il premio Oscar Gabriele Salvatores con l’acclamato Il Ritorno di Casanova: un film che esplora la crisi artistica e umana, calandoci negli inferi di una passione carnale attraverso la quale sembra possibile riconquistare la linfa vitale, acuendo al massimo l’esplosione di un mondo ingannevolmente controllabile. Non c’è politica, nel dramma con Toni Servillo, Fabrizio Bentivoglio, Sara Serraiocco, tuttavia il regista parte volutamente da un bilancio personale e generazionale e lo fa usando come pezza d’appoggio il libro di Arthur Schnitzler per poi sconfinare nella vita, che è fluida, incontenibile e irrefrenabile.

Salvatores ha ammesso senza remore, in occasione del Bif&st, le intenzioni che lo hanno portato a confezionare un film del genere, aprendosi al pubblico e alla stampa e donando loro tutte le sue più intime considerazioni: “non ho avuto figli, pensavo che non avrei potuto dedicargli abbastanza tempo. Si dice sempre che i film sono come figli, ma la pellicola non puoi abbracciarla”.
La sua analisi ne Il Ritorno di Casanova avvolge la settima arte, lascia che vecchio e nuovo duellino senza sosta in una combinazione di interpretazioni, sonorità e fotografia che non lascia tregua, portando lo spettatore ad affacciarsi sulle paure e le fantasie di Gabriele Salvatores, scorgendone prettamente il suo aspetto più umano e frangibile, quello che trascende dall’età e dalla professione, sorvolando persino il tempo, per farci riscoprire stropicciati, autentici e bellissimi.

Scordato: parlase di sé e con sé attraverso il viaggio

scordato film recensione cinematographe.it

È cinema che dialoga egregiamente col pubblico, trattandolo semplicemente come un manipolo di persone, come se ci fossimo incontrati su un treno in corsa e avessimo iniziato a raccontarci le sventure, i timori, i desideri e i rimpianti. Lo stesso tipo di arte che propone Rocco Papaleo in Scordato. I toni sono più ironici e il tema del doppio, che in Salvatores è un incastro di specchi dal retrogusto letterario, acquisisce nel lungometraggio dell’attore e comico basilicatese picchi di sarcasmo entusiasmanti, dettati dall’azzeccata presenza di Simone Corbisiero (che interpreta la controparte giovanile del protagonista, alias Rocco Papaleo) e da una sceneggiatura che si intesse col viaggio da e verso se stessi, ideologicamente e praticamente.
Rocco Papaleo ci consegna con candore la scissione pirandelliana a cui il suo essere è andato incontro, facendosi esempio di un malessere che potrebbe essere di chiunque, a qualsiasi età. Nella parola Scordato, titolo dell’opera, si coagula l’inadeguatezza più viscerale mai sperimentata: il regista, sceneggiatore e interprete si guarda e non si trova più, non trova aderenze tra ciò che è stato e ciò che è e, invece di arrovellarsi in solitaria, agglomera i suoi sentimenti su una pellicola digitale e li dà in pasto al pubblico. Accade così, il miracolo dell’arte! Ci si sente presi per mano e condotti sul precipizio pericolosissimo dei nostri interrogativi più atavici e irrisolti, a ripescare chi eravamo prima di essere noi, qui e ora. E chissà quante volte ci saremo sentiti irrisolti, incapaci di trovarci, di capirci, di ascoltarci.

Gabriele Salvatores applica i principi della psicanalisi con eleganza, sfruttando un personaggio iconico come quello di Casanova e l’alchimia fotografica del bianco e nero. Rocco Papaleo, al contrario, ci travolge con uno spirito più pop e colloquiale: ci sono dialoghi provocatori, frasi cariche di rime e musica rap che si infila tra le intercapedini della memoria graffiando dall’interno le domande ammutolite dalla quotidianità. Scordato propone la riflessione usando come mezzo preferenziale il viaggio.

Il confronto tra adulto e giovane persiste ma lo fa limpidamente, ponendo l’Orlando giovane faccia a faccia con l’Orlando adulto, mentre la soluzione per risolvere il dramma esistenziale non sta nel confezionare un film (come nel caso de Il Ritorno di Casanova) bensì nel ripercorrere il proprio vissuto, andandolo a rintracciare nei luoghi della propria infanzia. In quest’ottica Scordato è un viaggio on the road e nella sua fragranza divertente e dirompente trova il modo di inserire una parentesi storica che profuma di trasgressione e rivoluzione: le idee di sinistra che il personaggio di Angela Curri porta così eroicamente avanti sono fuoco ardente, una finestra aperta su un pensiero fresco, estremo, generosamente contaminato dall’ardore di una rivoluzione mentale e sociale che ancora oggi ci invita a riflettere, interrogandoci su quanto e cosa fosse giusto, di quel modo d’agire.
Le idee comuniste, nel lungometraggio di Rocco Papaleo, non vogliono che essere un dettaglio, un valore aggiunto all’interno di una trama che sarebbe stata perfetta a prescindere. Ad avere la nostra attenzione è però la fulgidezza con cui arrivano dritti a noi: sono frecce che scandiscono una certa idea di mondo equo e giusto, di una politica che si voleva idealmente porre a servizio di tutti, plasmando su chi l’abbracciava valori inalienabili e pregni di significati intramontabili.

Il comunismo da Scordato a Quando, arrivando a I Pionieri e Il Sol dell’Avvenire

quando recensione film cinematographe.it

È nel cerchio di questa ideologia di sinistra che si annodano altre pellicole di recente uscita, pur dalla resa meno impattante e riuscita. Una è certamente Quando di Walter Veltroni: una lettera nostalgica e fiabesca in cui l’ex sindaco di Roma ricama sulla storia del Partito Comunista Italiano e lo fa usando come escamotage narrativa il risveglio dal coma dopo oltre trent’anni di Giovanni (Neri Marcorè), la cui vita si ferma il giorno dei funerali di Enrico Berlinguer per poi ricominciare in un tempo completamente nuovo in cui il PCI non esiste più, al pari dei suoi affetti (almeno per come li ricordava lui).
Ci si sposta pesantemente, come è chiaro, sull’aspetto prettamente politico. Lo stesso avviene in I Pionieri, l’opera prima di Luca Scivoletto che non si limita a parlare di comunismo ma si addentra nella considerazione che la gente comune aveva dei comunisti nella Sicilia degli anni ’90. In tal caso il cinema italiano continua a parlare comunista e lo fa attraverso la formula del coming of age, dal momento che il protagonista è un ragazzino ossessionato e condizionato dalle idee politiche dei genitori, al punto da organizzare una stravagante fuga.

Tuttavia è in Il Sol dell’Avvenire, l’ultimo film di Nanni Moretti, che autoreferenzialità e spirito politico esplodono concretamente. L’autore e interprete romano porta sul grande schermo le molteplici sfaccettature del suo essere, in un dialogo su più linee in cui si appresta a calarsi nelle diverse versioni di sé e a dirigere consapevolmente quattro film in uno. In una trama che dovrebbe narrare la vita di un regista alla prese col suo prossimo film si inseriscono pian piano altre sottotrame parallele, scritte su pellicola come pensieri su un diario segreto, pronti a lasciare scoperti i tasti dolenti della vita.
Articolato come una scatola cinese, Il Sol dell’Avvenire è un film politico nella misura in cui ci parla della reazione del Partito Comunista Italiano dopo la rivoluzione ungherese del 1956, ma è anche un film d’amore, quello passionale che esplode tra i personaggi di Silvio Orlando e Barbora Bobuľová, quello senza età che nasce tra i personaggi di Jerzy Stuhr e Valentina Romani. Ed è anche e soprattutto un film sulla rinascita e sul cinema.
Nella scena in cui il protagonista si mette ad analizzare la scena di violenza proposta da un suo collega, tenendo in ostaggio l’intera troupe e chiamando in causa persino Renzo Piano e Corrado Augias, l’autore estremizza il concetto di perfezione nell’arte spingendosi ai confini del ridicolo e strappandoci una risata amara che sconfina nella riflessione, abbracciando l’intera pellicola nella sua essenza meta-cinematografica.

A catturare l’attenzione dello spettatore è anche il concetto di morte: c’è una parte del protagonista che effettivamente muore ed è quella del suo ruolo di marito nella relazione con la moglie. Giovani per Paola (Margherita Buy) non esiste da tanto tempo, ma smette necessariamente di esserci nel momento in cui la donna trova il coraggio di dirlo a se stessa e poi, finalmente, di dichiararlo a lui. Lei sta rinascendo e lo sta facendo da sola, finalmente! Lui invece è morto o, meglio, una parte di sé lo è. Lo è a tal punto che si immedesima con la scena dell’impiccagione che dovrebbe girare.
Ma poi qualcosa accade, a un certo punto è come se capisse e la pellicola prende un’altra piega: più romantica, più rivoluzionaria, decisamente più vitale!

In quest’ottica Il Sol dell’Avvenire diviene la copia carbone del cinema italiano di questa stagione: cambiando i piani finali Moretti esplica palesemente di aver voluto dare retta agli attori, al pubblico, a chi lo circonda insomma! Il suo Giovanni, così intento ad ascoltare solo la sua voce interiore, a un certo punto si accorge del mondo là fuori e decide di ascoltarlo e assecondarlo.

L’ideologia comunista c’è, forte e chiara, ed esplode con vigore in una scena finale che ricorda tanto l’opera Il quarto stato, di Giuseppe Pellizza da Volpedo. Ripescando il paragone con Scordato, Quando e I Pionieri, il film di Moretti si pone a conclusione di una riflessione ottimistica sul comunismo, bloccandolo nella sua frequenza più dirompente e vittoriosa. Se Rocco Papaleo ha narrato in parte la violenza, Walter Veltroni il lato più fiabesco e Luca Scivoletto quello delle arcinote dicerie in una società bigotta, Il sol dell’Avvenire narra un fatto specifico e senza remore ci interroga sulle posizioni da prendere, in politica come nella vita. Perché le ideologie sono spesso giuste, ma i fatti deragliano e fanno danni.

Alla luce di questo il cinema italiano parla comunista e lo fa, in fondo, senza rimpianti. Al netto di tutti i legami storici i film citati non elogiano un certo periodo, ma si limitano a raccontarlo, creando un inevitabile legame con l’idea stessa del cinema: una settima arte che si fa per tutti, un mezzo a basso costo per comprendersi dall’interno, per ridere di sé, per apprezzare ciò che si era e soprattutto ciò che si è diventati. Nella stessa parabola si interseca l’idea della condivisione: da Salvatores e Moretti, passando per Papaleo, si trova il coraggio di narrarsi, completamente disarmati, morire da registi per rinascere umani, frangibili e vicini.

Un’operazione, quella innescata dal cinema italiano, certamente improvvisata ma che si pone quasi come un nuovo ed estemporaneo incipit.

Tags: Editoriali