Venezia 76 – Psychosia (Psykosia): recensione
Recensione di Psychosia di Marie Grahtø, opera che tenta di esplorare in maniera onirica e suggestiva la mente e il suicidio, ma finisce per essere vuoto e artificioso.
Suicido. Uccidere se stessi. Spingersi oltre le barriere del dolore e approdare in una dimensione pacifica, priva di sofferenza, certamente oscura, ma liberati da se stessi e dalla propria mente. E proprio “mente” è la seconda parola importante per Psychosia, film presentato alla 76esima edizione della Mostra di Venezia, nella sezione della Settimana Internazionale della Critica. Nell’intreccio dei pensieri di morte e di esperienza delle protagoniste, il film va tentando lo svelamento dei tentativi ultimi per oltrepassare il confine di questa terra, svanendo però nell’evanescenza dei propri sforzi, sia istintivi che analitici, nonché nell’impostazione totale delle suggestioni.
Viktoria (Lisa Carlehed) viene chiamata da un istituto psichiatrico per aiutare Jenny (Victoria Carmen Sonne), ragazza residente della struttura, impegnata costantemente in intenti suicidi. Assolutamente agli antipodi rispetto la rigida compostezza della ricercatrice, la giovane si rivela ribelle, ingestibile, lunatica. Ma tra Viktoria e Jenny andrà presto ad instaurarsi un rapporto ben più coeso di quanto le prospettive lasciavano sperare, un legame fatto di analisi e curiosità, attrazione e ripudio, una contrapposizione netta e costante che finirà per rivelarsi molto più sottile di quanto le due donne avrebbero potuto pensare.
Psychosia: l’evanescenza di un racconto sul suicidio e la mente
Dalla Danimarca, la regista e sceneggiatrice Marie Grahtø ci regala un incubo senza fine. Non quello delle sue problematiche protagoniste, non l’inconsistenza di una vita dedita soltanto al perseguimento della morte, né del dolore auto-inflitto che parte dalle idee nella propria testa e si espande come energia potenziale per l’intero corpo. L’incubo offerto dalla Grahtø, è quasi un’ora e mezza di seduta psichiatrica nell’ambiente esterno e filologico più sterile che un film sulla mente e il suicidio potesse partorire. Una sequela interminabile – nonostante la sua relativa durata – di inserti surreali, inconsci e onirici, che vogliono funzionare più per dare atmosfera alla pellicola, che per costruire un discorso coerente e appassionante su un male come quello del togliersi la vita. Una manovra che, tra l’altro, non ottiene la riuscita di quel clima ansioso e introspettivo.
Quello della Grahtø è, infatti, un film che sembra possedere l’ingenuità del dilettante, non solo nel suo non centrare l’obiettivo prefissato, ma chiudendosi irrimediabilmente su se stesso, in una sovra-interpretazione fintamente articolata e probabilmente convinta dell’intelligenza posta dietro al suo lavoro di meditazione. Così, nel suo surrealismo pasticciato, Psychosia prolunga i silenzi, le inquadrature e i punti su cui soffermarsi, ancora e ancora un altro minuto, aggiungendo alla staticità della sceneggiatura, e soprattutto dei dialoghi, una staticità anche di regia, che nelle poche volte in cui cerca il movimento trova, al suo posto, riprese semplicistiche e inadeguate.
Psychosia: l’auto-analisi fine a se stessa
Non bastano certo le inquadrature geometriche a impressionare per la loro attenzione formale, benché meno i richiami visivi al capolavoro di Ingmar Bergman del 1966 Persona, che tentano nei tagli dei primi piani una sola angolazione, per dare un’unica fattezza nata dal sovrapporsi di più volti. Quadri in cui l’artificiosità delle attrici viene ancor più accennata, aggiungendo all’impossibilità di seguire i risvolti degli eventi, anche quella di interessarsi alle interiorità disturbate dei personaggi.
Se la mente è l’universo da indagare nel film di Marie Grahtø, ci si domanda piuttosto dove lo spettatore dovrebbe cogliere l’originalità nell’auto-osservazione di sé in Psychosia, tentando di comprendere perché un percorso che si era prefissato essere labirintico, intricato e destinato al turbamento, sceglie di sfociare, invece, nello smarrimento. Un esperimento insensato in cui l’obiettivo mancato viene reso volatile sotto ogni punto, e che sceglie di infliggere il colpo di grazia fin proprio al suo epilogo.