Ma: recensione del film con Octavia Spencer

Non basta una brillante Octavia Spencer e un radicato sotto testo sociale di denuncia al bullismo a dare lo slancio all'ultima produzione Blumhouse, Ma non decolla mai, relegandosi a semplice (e dimenticabile) horror adolescenziale.

Ma, ultima produzione della Blumhouse – gallina delle uova d’oro del cinema americano dell’ultimo decennio, sull’entusiasmo dei recenti successi di critica e pubblico Get Out (2016) e Halloween (2018), punta su un horror dal concept simile al premiato film di Jordan Peele, un thriller-horror dal radicato sotto testo sociale – ne viene fuori tuttavia un prodotto di valore infinitamente inferiore, un horror adolescenziale che nemmeno la presenza di un nutrito cast di attori di prima fascia (ben due Premi Oscar), può rendere poco più che godibile.

Erica e Maggie Thompson (interpretate rispettivamente da Juliette Lewis e Diana Silvers), tornano nella terra natale della prima, una tranquilla cittadina dell’Ohio non ben precisata; Erica trova lavoro come cameriera in un casinò, e Maggie cerca di ambientarsi a scuola. Entrambe cercano di rifarsi una vita. Le loro esistenze verranno scombussolate dall’infermiera veterinaria Sue Ann (interpretata dal Premio Oscar Octavia Spencer) – una signora di mezza età affabile e solitaria, in cerca della compagnia di adolescenti a cui prestare la cantina di casa sua per far festa; ben presto Sue Ann si rivelerà invadente ben oltre l’umana concezione, e vittima di un oscuro passato.

Ma: una grande Octavia Spencer per uno script debole e arrancante

La forza di Ma sta tutta nel sodalizio tra Tate Taylor e Octavia Spencer, il regista di The Help, premiata pellicola agli Oscar 2012 con cui la Spencer vinse l’Oscar alla Migliore Attrice Non Protagonista – è uno che sa bene come valorizzare il talento, l’espressività, la fisicità e il carisma di Octavia Spencer. Per tutta la durata del suo arco narrativo la Spencer incanta, esteriorizzando al meglio le nevrosi e il disagio di un personaggio come Ma/Sue Ann che traspare nelle sfuriate, negli eccessi d’ira, nei repentini cambi d’umore, e in un percorso narrativo in cui parte da signora affabile e solitaria, per scoprirsi possessiva, sadica e manipolatrice. Può poco tuttavia un forte sodalizio artistico dinanzi a uno script zoppicante, la sceneggiatura dello stesso Taylor infatti, pur riuscendo a esteriorizzare al meglio il disagio interiore della Ma/Sue Ann della Spencer, pecca non solo di caratterizzazione degli altri personaggi – che eccetto la protagonista Maggie, son perlopiù “personaggi-funzione” – ma anche e soprattutto di fluidità.

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Ne emerge quindi un terzo atto sì interessante e appassionante, ma una risoluzione del conflitto che seppur caratterizzata da un’antagonista che adopera il contrappasso dantesco come soluzione dei suoi problemi interiori – degenerando nella totale follia nelle battute finali – può poco dinanzi a un andamento dal ritmo lento, con soluzioni narrative reiterate e riproposte in modo tale da alzare l’asticella del conflitto, ma determinate da soluzioni semplicistiche, facilonerie, causanti buchi di trama e non poche incomprensioni, anche nello spettatore più attento.

Grande valore invece al comparto scenografico, che grazie alla fotografia rarefatta di Christina Voros, riesce a dare quel giusto senso di avvicinamento e verosimiglianza agli eventi narrati, in una scelta di ambienti narrativi con pochi particolari e poche fonti di luce se non nella cantina – ponendo quindi il focus maggiormente sui personaggi e le loro relazioni, e non tanto nell’ambiente in cui farli vivere.

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Ma: disagio interiore e Social Media

In compenso il disagio relazionale di Ma/Sue Ellen, le cui radici sono riscontrabili in una brutta esperienza al liceo e in divorzio doloroso, emergono nel suo modo di approcciarsi alla vita, in continue richieste esplicite di attenzioni che rasentano la paranoia e lo stalking, nella ricerca ossessiva della compagnia di adolescenti a cui far organizzare feste nella sua cantina – che nel proseguo di trama si scoprirà essere solo una causale per uno scopo ben più netto e macabro – nell’opprimente controllo della sua unica figlia continuamente sovramedicata e imprigionata in sequenze degne di Misery Non Deve Morire (1990) a cui chiede di farle pure da complice a un certo punto, e in una spaventosa ricerca di dettagli delle persone vicine tramite i social network, in un continuo controllo dal forte sapore estraniante.

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Ma lascia decisamente con l’amaro in bocca, perché una più che valida interpretazione della Spencer a metà tra la psicotica Annie Wilkes e dall’istinto genitoriale di Jack Torrance, meritava di più di un horror adolescenziale declinato in uno script debole e ampiamente dimenticabile.

Ma, diretto da Tate Taylor, è stato rilasciato nelle sale italiane il 27 Giugno 2019, distribuito da Universal Pictures.

Regia - 2
Sceneggiatura - 2
Fotografia - 2.5
Recitazione - 3
Sonoro - 1
Emozione - 1.5

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