Le otto montagne: recensione del film di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch

Prima ancora di essere un racconto sull’amicizia, Le otto montagne è più una riflessione decisamente sincera sugli effetti generati dalle colpe dei padri, sui figli.

Presentato in anteprima mondiale alla 75° edizione del Festival di Cannes, dove ha vinto il Premio della Giuria, Le otto montagne, adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo del 2017 di Paolo Cognetti, vincitore del Premio Strega, è il racconto di un’amicizia senza pari che resiste ai colpi del tempo e che nonostante le incomprensioni e le insidie della vita resta salda, senza piegarsi mai.
Il film arriva al cinema dal 22 dicembre 2022 con Vision Distribution.

Le otto montagne: il racconto di un’amicizia

le otto montagne recensione cinematographe.it

Pietro e Bruno sono gli unici due bambini di Grana, un paesino apparentemente sperduto della Valle Aosta. La famiglia di Pietro viene dalla città, padre ingegnere e madre insegnante, mentre quella di Bruno ha sempre vissuto tra le montagne, perciò guardinga, discriminante e sospettosa rispetto ai villeggianti o più in generale alla gente di fuori. Un’amicizia potenzialmente senza fine che si sviluppa nel corso della loro infanzia e che incontra una prima battuta d’arresto nel momento in cui la famiglia di Pietro cerca di portare con sé Bruno per permettergli di studiare e conoscere le potenzialità della grande città. Un’offerta che sembra incontrare il benestare degli zii di Bruno, con i quali il ragazzo vive, ma non quello del padre, che decide di tenerlo con sé, facendolo diventare un muratore e allontanandolo una volta per tutte dall’alpeggio e dalla vita di montagna così amata da Bruno.

Passano gli anni, Pietro e Bruno ancora si incontrano nei bar di Grana, pur senza rivolgersi la parola, fino ad un addio apparentemente definitivo. L’adolescenza sfuma rapidamente e i due diventano adulti senza nemmeno accorgersene e senza più incontrarsi. Finché, la morte del padre di Pietro non cambia le cose, e i due amici si ritrovano di nuovo in quei luoghi dell’anima, intrecciando indissolubilmente i rispettivi destini.

Il formato de Le otto montagne – Spettacolarità o ricerca alternativa e stilistica di quella stessa sensazione

Immaginare una trasposizione cinematografica del romanzo omonimo di Paolo Cognetti degna di tale nome, sembrava essere un’assurdità, considerata la complessità tematica così stratificata e densa di emotività, riflessioni, psicologismi e vere e proprie analisi di anime tormentate e appassionate, destinate all’inseguimento feroce e cieco di destini molto spesso riconducibili alla solitudine, eppure il duo di registi e sceneggiatori belgi formato da Felix Van Groeningen e la compagna Charlotte Vandermeersch, è riuscito a soddisfare tale obiettivo senza riserve, regalando al pubblico un film memorabile, profondamente commovente e di un realismo così inaspettato da risultare destabilizzante e spettacolare.

Una prima riflessione degna di interesse rispetto a questo film ha a che fare proprio con il concetto di spettacolarità, da molti considerato poco (o mal) sfruttato, a causa di una scelta registica apparentemente anomala e curiosa, ossia quella del formato 4:3 che inevitabilmente limita l’aspetto visivo della montagna a livello paesaggistico e dunque spettacolare, trovando però una motivazione estremamente logica e funzionale, cioè il rispetto nei confronti della verticalità della montagna.

Groeningen e Vandermeersch sembrano infatti cercare lungo le due ore e mezza di durata del film proprio la percezione assoluta da parte dello spettatore di quel concetto di verticalità, di salita al cielo, di elevazione morale e spirituale tanto cara a Bruno, interpretato magnificamente da un Alessandro Borghi selvaggio, arcaico, profondamente appassionato eppure tormentato da quella stessa natura destinata a mutarlo sempre più, fino a renderlo irriconoscibile e perduto.

Ciò che sorprende guardando alla regia del duo belga è quanto in realtà il film riesca ad essere vertiginoso, di grandi atmosfere, dunque visivamente affascinante, pur operando la singolare scelta di formato discussa precedentemente. Dai primi ai primissimi piani, si passa a campi lunghi e totali, che espongono ferocemente in contrasto questi piccoli uomini, con la maestosità e grandezza della natura, così sconfinata, dolce e imprevedibile.

I luoghi di Le otto montagne si rivelano fin dalle prime inquadrature i reali protagonisti del film, destinati in qualche modo – così come Pietro e Bruno – a mutare nel tempo, pur restando gli stessi. Quei luoghi approcciati tanto da Groeningen e Vandermeersch, quanto dagli interpreti con estremo realismo e forse proprio per questo così evocativi, simbolici e potenti.

Padri e figli – Il terrore di replicare quegli stessi errori che ci hanno fatto così male…

Le Otto Montagne - Cinematographe.it

Prima ancora di essere un racconto sull’amicizia, questo film appare più come una riflessione decisamente sincera sugli effetti generati dalle colpe dei padri, sui figli. Una riflessione amara, malinconica e dolce. Qualcosa che ha a che fare con la delusione e il terrore di replicare quegli stessi errori così chiaramente marcati e sottolineati. Non è casuale che il duo di registi abbia elaborato personalmente questa riflessione nel corso della vita, poiché osservando attentamente le dinamiche tra padri e figli mostrate e raccontate nel corso del film si ha l’evidenza di un’analisi psicologica accuratissima, autobiografica e maniacalmente attenta alle sfumature e alle ferite dell’anima, quelle destinate a non rimarginarsi più e a causare dolore eternamente, fino alla fine dei giorni.

Quelle ferite messe in scena nell’ombra, a margine dell’inquadratura, celate nello sguardo o nel silenzio di questo o quel personaggio e mai esplicitate direttamente, o peggio ancora gridate e sfruttate come momenti di dramma. La forza del film risiede proprio in questa scelta, l’accettazione della vita nella sua accezione più totale, rispetto ad ogni suo aspetto, nel bene al male. Estremamente complesso il lavoro di regia e poi di scrittura di questo film, costantemente in bilico tra epopea familiare e melodramma. Un vero e proprio spaccato storico, capace di raccontare il divario generazionale necessario, inevitabile e perciò esistente rispetto a qualsiasi legame fittizio e reale tra un padre ed un figlio, concentrandosi però sui sensi di colpa, sulla delusione e sul timore di ricalcare quei passi così giudicati e mal considerati, dall’uno e poi dall’altro.

Pietro (Luca Marinelli) vive infatti nell’ombra di un padre, Giovanni (Filippo Timi) che alla sua stessa età aveva già raggiunto non soltanto indipendenza e sicurezza economica diventando ingegnere, ma anche e soprattutto una certezza emotiva – o così verrebbe da definirla – creandosi attorno una famiglia di cui prendersi cura. Un padre che per tutta la vita ha cercato in ogni modo di fuggire dalla città, per rifugiarsi tra le montagne, appassionandosi alla loro verticalità, alla loro portata simbolica e alla loro capacità di generare pace e conforto, conducendo inevitabilmente alla solitudine e alla laconicità.

Ecco che i silenzi tornano in quella prima salita verso il ghiacciaio che i due amici, Pietro e Bruno compiono nel periodo dell’infanzia accompagnati da Giovanni. Una salita durante la quale ai due bambini non è concesso parlare, soltanto ammirare e accettare il silenzio e il regalo principale che la montagna ha da offrire loro – e in generale a tutti noi – l’esserci.

Non la pensa allo stesso modo però il padre di Bruno, che rifiutandone le logiche conduce forzatamente il figlio ad una vita di fatiche, lavoro e solitudine, quella dei cantieri e del rifiuto dell’esistenza di una cultura e realtà differente e ricca di esperienze e possibilità oltre la vallata. Così come il romanzo di Cognetti, anche la sua trasposizione cinematografica pone lo spettatore di fronte a più di una questione, prima tra tutte è quella della scelta familiare che è poi chiave dell’intero processo emotivo e riflessivo del film: quale tra le due famiglie è stata capace di causare il male peggiore? Quello più irreparabile, costringendo l’allontanamento del proprio figlio?

Groeningen e Vandermeersch dimostrando un’imparzialità autoriale senza pari, scelgono di non schierarsi da nessuna delle due parti, osservando però nel corso di un’intera vita e crescita quanto due uomini così differenti tra loro eppure complementari, riescano a ritrovarsi nello stesso dolore, pur affrontandolo in modo opposto: c’è chi resta e c’è chi va.

Le montagne mi stanno chiamando, e io devo andare – La baita, l’amicizia, la fuga

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Guardando a questo ottimo film, si ha l’impressione di tornare alle pagine di Le montagne mi chiamano. Meditazioni sulla natura selvaggia di John Muir, all’interno delle quali è presente un’antica e ormai conosciutissima citazione: “The Mountains are calling, and I must go”.
Una citazione che sembra aver forgiato l’animo montanaro e selvaggio di Bruno (Alessandro Borghi), così apparentemente indistruttibile, eppure colmo di fragilità, nevrosi e timori. Un vero e proprio uomo della montagna, che sembra perfino essere parte di quest’ultima, come un’entità ibrida o mitologica che tentando in ogni modo di accettare le convenzionalità sociali della famiglia e dell’occupazione lavorativa – mettendo da parte pressoché totalmente il suo aspetto economico – non riesce a mentire a sé stesso, preferendo a tutto ciò la montagna, la solitudine, la neve, le cime e i silenzi. D’altronde risulta sempre inutile sfuggire dinanzi alla propria natura e destino.

Quello di Bruno è un amore nei confronti della montagna sfrenato e illimitato a tal punto da risultare onirico, fanciullesco, potenzialmente pericoloso e in un certo qual modo perfino inaccettabile da parte dell’amico Pietro, che nonostante gli spigoli emotivi, la laconicità e le convenzioni ferree e testarde dell’eterno amico montanaro non può che farvi ritorno, legandosi alla sua forza morale incorruttibile e purissima, e forse per questo anche infantile e ingenua. Laddove Bruno ha raggiunto troppo presto la fase adulta tra fatica e fisicità, Pietro l’ha percorsa lentamente e intellettualmente, creando quel divario tra i due così complesso e definitivo da colmare, attorno al quale l’intero film riflette e racconta.

L’amicizia tra Pietro e Bruno però non può che giungere all’animo e all’emotività dello spettatore come qualcosa di assolutamente incredibile, viscerale e scomodo. Un sentimento e legame capace di sopravvivere ai colpi del tempo, alla distanza, ai difetti e alle reciproche coscienze grazie ad una baita che i due condividono e che rappresenta in tutto e per tutto testimonianza diretta di un lascito generazionale e paterno, così come di un tempo condiviso – la costruzione – che non torna più e resta conservato nel ricordo e nella memoria di due uomini tormentati, appassionati eppure invincibili. La baita che rappresenta poi l’unico e definitivo attaccamento alla vita da parte di Bruno, in seguito all’abbandono dei legami familiari e dunque all’accettazione della solitudine. Un rifugio dell’anima, una spinta vitale.

Torna la scelta, traccia narrativa costante all’interno del romanzo e del film: restare o andare? Ecco che qui si compie per la prima e ultima volta la distanza e crescita umana tra i due protagonisti Pietro e Bruno. Una scelta che ha a che fare questa volta con la necessità della fuga, come unica via per superare il dolore e trovare la propria posizione e dimensione nel mondo, pur temendo eternamente il ritorno.

Non è mai facile andarsene, non è mai facile restare, questo mette in scena davvero abilmente Le otto montagne, mostrando le conseguenze e gli effetti emotivi dell’una e dell’altra via, attraverso il racconto memorabile e commovente di due uomini potenti e fragili allo stesso tempo, capace di dialogare ed entrare in contatto con il vissuto dello spettatore in un modo assolutamente unico, sincero e destabilizzante.

D’altronde, considerata la potenza narrativa e cinematografica del precedente film del duo belga, Alabama Monroe (The Broken Circle Breakdown), c’era da aspettarsi un buon risultato, eppure molti hanno temuto. Il film è in uscita nelle sale a partire dal 22 di Dicembre 2022 e il consiglio è di andare in quelle sale, sedersi su quelle poltrone e vivere quest’esperienza cinematografica così toccante e meravigliosa, che non solo ha da offrire – ad oggi – le migliori interpretazioni di carriera di Alessandro Borghi e Luca Marinelli, ma anche e soprattutto una notevolissima esperienza sonora, forte di una colonna sonora simil folk capitanata dai brani di Daniel Norgren, difficilmente dimenticabile.

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4
Recitazione - 4
Sonoro - 4
Emozione - 4

4