Roma FF18 – Fremont: recensione del film di Babak Jalali

Il quarto lungometraggio da regista dell'autore di Frontier Blus e Land, tra minimalismo formale e autorialità indie che fortemente riconduce ai primissimi lavori di Jarmush e Smith, commuove e conforta, restando nel cuore degli spettatori. In concorso alla 18a edizione della Festa del Cinema di Roma.

Presentato in anteprima mondiale al Sundance Film Festival, Fremont, il quarto lungometraggio da regista del sempre più promettente Babak Jalali, autore nato in Iran e cresciuto in Inghilterra, è approdato alla 18ma edizione della Festa del Cinema di Roma.
Il fatto che Fremont ruoti non solo attorno ai rifugiati devastati dalle conseguenze traumatiche e irrevocabili della guerra, ma anche agli effetti del ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan nel 2020, dice molto del suo autore, che tra autobiografismo e ricerca di un modello cinematografico fortemente sociale e politico, dà vita ad un piccolissimo film, che scansando qualsiasi forma di facile sentimentalismo e melodramma, raggiunge il cuore degli spettatori, senza più lasciarlo andare.

Babak Jalali e il ritorno alle origini del cinema indie

Girato in uno splendido bianco e nero, che ricorda i primi lavori di Jim Jarmush, come Stranger Than Paradise e Daunbailò, il film di Babak Jalali, pur non essendo in alcun modo rivoluzionario o incredibilmente memorabile e travolgente, riesce nell’impresa molto spesso complessa e difficilmente portata a compimento dalla maggior parte degli autori di cinema drammatico, di riuscire a riflettere con sorprendente ironia e maturità, sui legami emotivi e le possibilità che si scatenano nei luoghi più inaspettati, proprio come il piccolo locale californiano in cui la protagonista di Fremont, Donya, lavora.

Donya (la prova dell’esordiente Anaita Wali Zada conquista e ammalia) ha lavorato come traduttrice afgana per gli Stati Uniti prima che i talebani tornassero al potere. Ora ha un minuscolo monolocale a Fremont, in California, circondata da altri afgani fuggiti dal regime. Lavorando in una fabbrica di biscotti della fortuna, Donya sa che in qualche modo quel sentimento positivo deve e può appartenerle, decide così di consegnare al mondo un suo personalissimo messaggio: “Alla disperata ricerca di un sogno”, con tanto di nome e numero telefonico.

Il sogno però, come ogni obiettivo importante da raggiungere nella vita, è estremamente distante, e prima di esso vi sono le notti insonni, il timore, lo sconforto di non essere abbastanza e la condizione della (non) appartenenza ad un luogo e modello sociale, talmente importante da abbattere, costringendo chi la subisce ad una resa dei conti, che se in alcuni casi può coincidere con la violenza, qui si lega ad una poetica e assolutamente commovente ricerca di umanità e di connessione emotiva che immediatamente coincide con la regia – e l’ottima sceneggiatura di Carolina Cavalli – pur sempre placida, equilibrata, malinconica e rasserenante.

Non sorprende infatti che Fremont sia stato accolto più che positivamente dalla critica americana che ben prima di quella nostrana, ha avuto il privilegio di osservare il quarto lungometraggio di Jalali nel corso dell’ultima edizione del Sundance Film Festival. Poiché a partire dalle sue primissime sequenze, Fremont, non può far altro che ricondurci a quel modello cinematografico indipendente dall’estetica low-fi e dalle volontà narrative assolutamente ridotte, intimistiche e per questo fortemente sincere che gridano a gran voce nomi quali Jim Jarmush e Kevin Smith.

Fremont: valutazione e conclusione

Fremont di Babak Jalali - Cinematographe.it

Una grande cura, da non sottovalutare, poiché non rintracciabile nella quasi totalità dei prodotti cinematografici contemporanei, tanto statunitensi, quanti stranieri, riservata ai personaggi secondari, fa di Fremont un film inaspettatamente attento sia alla forma che al contenuto, fattore non scontato trattandosi pur sempre di un cinema minimalista e dalle ridotti dimensioni narrative, che proprio per questa ragione, maggiormente sorprende e conquista lo spettatore permettendogli di rivalutare che cosa il cinema debba e possa essere realmente, al di là dei blockbuster e delle majors.

Due ragioni essenzialmente valgono la visione di Fremont.
La prima come detto, è la grande prova dell’esordiente Anaita Wali Zada, ex giornalista e rifugiata, che pur non avendo mai preso alcuna lezione di recitazione in vita sua, appare di una sincerità, trasparenza e adeguatezza al ruolo assolutamente sorprendente.

La seconda, già discussa e anticipata, ancor prima dell’uscita del film sia rispetto al Sundance Film Festival che alla Festa del Cinema di Roma, coincide con la brevissima eppure memorabile apparizione del Jeremy Allen White di The Bear che nei panni del giovane meccanico Daniel, ci dimostra ancora una volta che cosa significhi essere un grande interprete cinematografico. Non è dunque importante il minutaggio, o la posizione nell’inquadratura, piuttosto l’emotività che in appena due sequenze, o poco più, ci prende, facendomi innamorare e restando con noi, anche oltre i titoli di coda.
Notevole!

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 3.5
Recitazione - 3.5
Sonoro - 3.5
Emozione - 3.5

3.6