Roma FF17 – Era ora: recensione del film di Alessandro Aronadio

Aronadio dimostra una loquace intelligenza nel narrarci, con semplicità, una storia che potrebbe essere di tutti e per questo dà fastidio.

Si focalizza sui suoni, Alessadro Aronadio. Lo fa in Orecchie, suo secondo e riuscitissimo film e lo fa anche in Era Ora, quarta pellicola del regista presentata alla 17ma edizione della Festa del Cinema di Roma, in cui a scandire le immagini provvede il suono della sveglia, il trascorrere minuzioso del tempo che assassina le nostre giornate, fino a divorare la nostra intera esistenza.

Prendendo spunto dall’australiano Long Story Short, l’autore della pellicola cuce addosso ad Edoardo Leo e Barbara Ronchi la maschera di Dante e Alice: impiegato presso una compagnia d’assicurazioni lui, illustratrice lei. Partendo dal loro incontro casuale la storia ci dirotta poi all’interno della loro intimità domestica, in cui è lapalissiana la differenza delle velocità alle quali viaggiano. Se per Dante – che va sempre di corsa ed è obbligato a incastrare gli impegni in pausa pranzo, arrivando tremendamente tardi anche alle festa a sorpresa minuziosamente preparata dalla compagna – il tempo è denaro e va impiegato assolutamente lavorando, per Alice le giornate scorrono quiete tra i suoi colori e i pennelli. Si prende il tempo per preparare i pancake, per dipingere una porta finta, per preparare una coreografia che sappia sorprendere l’amore della sua vita.

Era ora: il film di Alessandro Aronadio accarezza graffiando

Se in un primo momento Era ora può assumere la fisionomia di una commedia romantica, acquisisce i contorni della drammaticità e (se vogliamo osare) della fantascienza nel momento in cui immette il protagonista in un loop temporale che si accorcia progressivamente, senza dargli il tempo di accorgersi dell’attimo. All’improvviso, dopo la festa a sorpresa dei suo 40 anni, la mattina seguente si trova catapultato all’anno successivo: la casa è arredata come non ricordava, la moglie è al quinto mese di gravidanza. Quando è successo tutto questo? Anche qui, come in Orecchie, il regista introduce figure professionali e non che di fatto servono davvero a poco, poiché nessuno sembra afferrare il nocciolo del problema.

Il Dante di Edoardo Leo si tatua addosso quella stessa perdizione narrata dal Sommo Poeta nei versi iniziali della sua Commedia, ma a differenza dell’autore fiorentino manca di saggezza. Il suo purgatorio sarà una scala mobile in cui a ogni gradino è nascosta la vacuità del tempo trascorso; un percorso che lo obbliga ovviamente ad andare avanti, a viaggiare in un presente che brucia talmente in fretta da essere inteso come futuro. Il protagonista dimentica tasselli fondamentali del suo vissuto (il nome della figlia, la malattia del suo migliore amico, la crisi con la moglie, l’identità dell’amante, la promozione lavorativa), rimarcando l’idea di un tempo effettivamente perso e non assaporato, un tempo che non si è reso conto di vivere.

Il Dante di Edoardo Leo e l’Alice di Barbara Ronchi sono un bisticcio di citazioni velatamente letterarie

L’Alice di Barbara Ronchi, al contrario, corre sul filo delle avventure di Lewis Carroll: non si rifugia nei sogni ma vive d’arte, non ha evidentemente un posto fisso e sembra dare importanza alle cose che contano davvero. Si introduce negli interstizi della narrazione, flebilmente ma ferocemente, la triste prospettiva della situazione lavorativa italiana, quella spada di Damocle del precariato che sottrae l’anima anche quando si raggiunge l’obiettivo del tanto agognato “posto fisso”. Una tematica, questa, molto cara a Edoardo Leo e spesso rintracciabile nelle sue opere di autore e interprete, da Smetto quando voglio a Io c’è, fino a Noi e la Giulia e Che vuoi che sia.

Ma c’è anche frustrazione, in Era ora, affidata ad esempio al personaggio di Francesca Cavallin, segretaria e poi amante di Dante, che in una scena ammette: “Non è la vita che volevo vivere”, asserendo il bisogno di adeguarsi a delle logiche sociali per cui è necessario stare con qualcuno o adempiere a certe cose entro una certa età.

Sembra di trovarsi davanti a un esercizio di retorica, a una questione ordinaria, invece l’autore dimostra una loquace intelligenza nel narrarci una storia che potrebbe essere di tutti e per questo dà fastidio, fa riflettere sul modo in cui ci lasciamo scivolare il tempo, sulle persone a cui ci sottraiamo, credendo addirittura di farci carico di tale sacrificio per il loro bene.
Aronadio, sostenuto in fase di sceneggiatura da Renato Sannio, intaglia su pellicola un film complesso, doloroso, acuto, ma lo fa con disarmante semplicità.

In quel tempo dedicato alla visione della pellicola ci siamo guardati dentro e lo abbiamo fatto senza riserve, poiché non c’è stata data la possibilità di fermarci, di rallentare: Edoardo Leo ci tira dentro al suo personaggio, facendoci assumere i tratti della sua personalità, facendoci confondere dentro le sue crisi, i suoi sbalzi d’umore. Siamo inavvertitamente lui e, se non cambiamo rotta, rischieremo anche noi di viaggiare in un’esistenza di cui non abbiamo memoria.

In Era ora l’arte è il linguaggio più immediato

era ora recensione cinematographe.it

Era ora è una carezza graffiante. Fa male la sua perfezione, quelle villette da famiglia americana, le inquadrature ben allineate, che non permettono sbavature, non ammettono neanche l’idea di una sosta improvvisa. La sterilità della routine ci soffoca, ci incastra in quel loop, ma ci permette anche di riprendere ossigeno, poiché è pur sempre una commedia, come lo è la vita. E così la pellicola applica velatamente le logiche di un riso di bergsoniana memoria, esplodendo in siparietti di amara ironia.

E non dimentica, questo è fondamentale, di lasciar salire a galla il dolore e il rimpianto attraverso il mezzo più immediato che possa esistere: l’arte. Quella affidata nella finzione alla mano e alla mente di Barbara Ronchi e che nella realtà si serve della maestria dell’illustratrice Beatrice Alemagna e della tecnica di un grande pittore contemporaneo italiano, Federico Pietrella, il quale ha concesso al regista di citare il suo metodo espressivo nella toccante scena dell’esposizione di Alice, quella in cui, tra le altre opere, vediamo un ritratto di Dante realizzato con i timbri e intitolato Tutti i giorni che ti ho aspettato.
In questa eccezione l’arte si fa portavoce dei pensieri più intimi di chi, pur amando, non riesce a ricevere la giusta dose di affetto e non è in grado di comunicare con la persona che ha accanto. Le illustrazioni sono quindi ciò che resta di un capitolo di esistenza, sono retaggio del passato e, perciò, certificazione di un rimpianto.

Prodotta da BIM Produzione, Palomar e Vision Distribution, Era ora sa guardarvi senza giudicare, ricordandovi che “ci sono solo due giorni in cui non si può fare niente, uno si chiama oggi e l’altro si chiama domani”.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 3.5
Recitazione - 4
Sonoro - 3.5
Emozione - 4

3.8