Cannes 2018 – Donbass: recensione del film di Sergei Loznitsa

La spietata critica politico-sociale si affianca, in Donbass, ad un'analisi di dinamiche umane alterate dal perpetrarsi di un profondo malessere, che ha radici ormai troppo intricate per sperare di riuscire ad arrivare al bandolo della matassa e ristabilire un qualche ordine.

La sezione Un Certain Regard di Cannes 2018 ha scelto, per la sua cerimonia cerimonia inaugurale Donbass, del regista ucraino Sergei Loznitsa, presente in competizione l’anno scorso con A Gentle Creature.

La sua ultima opera deve il nome ad una città dell’Ucraina dell’est, dove si sta consumando  una guerra ibrida divisa fra iniziative di eserciti poco più che improvvisati, forti di voler combattere le angherie dei “fascisti”, e vari crimini minori perpetrati dalle gang. Ma Donbass è solo la cartina tornasole di un’umanità intera in cui la ricerca di ordine e giustizia rischia progressivamente di trasformarsi in una totale farsa, di cui ciascuno di noi è parte attiva.

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Sergei Loznitsa mette in scena la rappresentazione di un piccolo inferno quotidiano, dalle radici profonde (ma non necessariamente conosciute a fondo dal pubblico) in cui la gente si sottrae ai bombardamenti improvvisi e incessanti vivendo in luridi bunker che non garantiscono le benché minime condizioni umane, e i civili sono vessati da militari che usano un qualunque pretesto per sfogare le proprie frustrazioni sui cittadini, continuamente raggirati, truffati e spesso minacciati. Poco lontano, invece, la vita continua con un matrimonio, a quanto sembra improvvisato anch’esso, fra due persone che decidono di ubriacarsi di una felicità in realtà preclusa dal solo guardarsi intorno, e per questo ancor più bramata e necessaria. Una realtà suddivisa in 13 episodi, eterogenei nei fatti ma allineati per le dinamiche di fondo,  in cui le regole della civiltà sono ormai compromesse, in cui tutti ce l’hanno con tutti e si sentono in diritto di convertire il proprio risentimento agendo sul prossimo, in nome della legge, di un passato doloroso o solo di una vita che ha bisogno di stimoli, di qualunque genere, per avere ancora una ragion d’essere.

Esiste un detto banale: la storia si ripete innanzitutto come tragedia e secondariamente come farsa. Non è vero. C’è anche una terza riflessione sugli stessi eventi, sulla stessa trama – un riflesso in uno spezzo ricurvo del mondo sotterraneo. La trama è impossibile e allo stesso tempo realistica, esiste davvero, vive vicino a noi. – Sergei Loznitsa

La spietata critica politico-sociale si affianca, in Donbass, ad un’analisi di dinamiche umane alterate dal perpetrarsi di un profondo malessere, che ha radici ormai troppo intricate per sperare di riuscire ad arrivare al bandolo della matassa e ristabilire un qualche ordine. L’abitudine a vivere immersi nella falsità della propaganda, in cui il male viene spacciato per bene e la manipolazione è l’unica arma per impedire una guerra civile, tuttavia ormai in corso, altera le percezioni dei protagonisti, gente senza identità e senza storia che si muove come zombie in un ambiente per definizione ostile, in cui è necessario usare la prepotenza per non soccombere perfino a se stessi.

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Il gusto per lo stile onirico e grottesco che caratterizza le opere di Loznitsa vira in Donbass verso una struttura simil-documentaristica, in cui il realismo si mescola all’inverosimile (o a ciò che vorremmo lo fosse), sullo sfondo di una violenza ormai praticamente gratuita e soggetta a una macabra messa in scena teatrale, in cui ognuno ha il suo ruolo ma non c’è più uno scopo da perseguire.

Il risultato è un’opera piuttosto inaccessibile, se si resta su un piano narrativo, ma amaramente simbolica rispetto alle dimensioni ormai inarrestabili di una deriva umana di cui noi stessi siamo i quotidiani responsabili, incapaci di mettere un freno alla spirale d’odio che ci sta inglobando tutti, al di là di ogni salvifica consapevolezza.

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Regia - 3
Sceneggiatura - 2
Fotografia - 3
Recitazione - 3
Sonoro - 3
Emozione - 2.5

2.8