Eternal – Odissea negli abissi: recensione del film di Ulaa Salim
La nostra recensione di Eternal – Odissea negli abissi, il secondo lungometraggio da regista del danese Ulaa Salim, in sala da giovedì 26 giugno. Distribuzione a cura di Wanted Cinema.
Tre capitoli. Nel mezzo, un amore giovane la cui fiamma, seppur dolce e gentile, brucia fin troppo rapidamente, divampando poi, distruggendo ogni cosa. Trattandosi d’amore, però, nella distruzione degli eventi e dei legami, quella fiamma non si spegne mai del tutto, sopravvivendo al tempo e a ciò che separa superficie e profondità. Dunque, il mondo dei vivi, dal mondo dei sospesi e dei tormentati. Anita (Nanna Øland Fabricius) appartiene al primo, mentre Elias (Simon Sears) al secondo. Sono i protagonisti di Eternal – Odissea negli abissi, il lungometraggio diretto da Ulaa Salim – autore danese estremamente interessante, a partire dal suo bell’esordio Sons of Denmark – in uscita nelle sale cinematografiche italiane a partire da giovedì 26 giugno 2025. Distribuzione a cura di Wanted Cinema.
Rom-com e Sci-Fi si incontrano e scontrano, dialogando tra loro, tra terre islandesi, oceani e tempi dell’amore

Presentato in anteprima mondiale al Rotterdam Film Festival 2024, Eternal è, a differenza del precedente lungometraggio di Salim, uno strano oggetto: di grande interesse e ambizione, con riferimenti stilistici e tematici a spasso tra i generi e i linguaggi. Sul fondo, una faglia sottile eppure spaventosa, che improvvisamente si apre, dilatandosi sempre più negli abissi dell’Oceano Atlantico e del Mar Glaciale Artico. Dalla sua osservazione – e necessaria chiusura – dipendono le sorti del mondo. Tutt’attorno, l’amore giovane di Anita ed Elias, che si conoscono in un locale come tanti, negli anni dell’adolescenza, per poi darsi l’una all’altro fino in fondo. Lei sogna di fare la cantante; lui, invece, studia per diventare pilota e climatologo, poiché ossessionato dalle questioni inerenti alla faglia. La sua instancabile ricerca, mettendo a repentaglio l’amore, conduce l’umanità alla salvezza. Un sacrificio che logora una vita. O forse due?
Come detto, Eternal è uno strano oggetto. Infatti, la prima mezz’ora – o poco meno – ci riconduce atipicamente alle atmosfere e ai ritmi di Normal People. C’è tutto: l’incomunicabilità del legame sentimentale, reso ancor più complesso dalle turbolenze emotive della giovinezza, e le distanze d’ambizione e destino tra i due. Ancora, gli sguardi e quella sessualità gentile e di grande sensibilità che solo Sally Rooney è stata capace di animare. Salim sprofonda qui, nei corpi e nei volti dei suoi due protagonisti, in un intimismo che non è mai fine a sé stesso, piuttosto chiave di un discorso più profondo, che riflette sui passi, le parole e i luoghi dell’amore. Sulla sua nascita, dunque, destinata a segnare la memoria di chi lo ha vissuto — e così l’addio. Per poi stravolgere inavvertitamente tempi e scenari del film, sconfinando nello sci-fi più puro, minimalista e sospeso tra esistenzialismo e spettacolarità.
Se è vero che da parte di Ulaa Salim — non solo regista, ma anche sceneggiatore di Eternal — non vi è mai alcuna volontà di celare sguardi e titoli di riferimento, è vero anche che il rischio corso dal film è duplice. In primo piano, l’evidenza di una profonda contaminazione dei linguaggi e della stilistica, cui segue una necessaria posizione di rispetto e poi evoluzione — o, altrimenti, rielaborazione — degli stessi, da parte del film, dunque del suo autore. Salim ci è riuscito? Ciò che è certo, è che raramente — al di là dell’incessante e inarrestabile produzione hollywoodiana — abbiamo visto qualcosa di simile. Eternal è ambizioso, famelico e maldestro nella sua osservazione sfrontata del dramma intimista di Interstellar di Christopher Nolan. In dialogo costante con le complessità dell’amore giovane — in definitiva spezzato — che appartiene tanto al già citato Normal People di Rooney/Abrahamson/Macdonald, quanto all’ormai celebre Past Lives di Celine Song. Rivolgendo, nel frattempo, sguardi fugaci e appassionati sia all’epica blockbuster e catastrofica di Armageddon – Giudizio finale di Michael Bay, sia alla vena filosofica, introspettiva, naturalistica e spaziale di The Tree of Life di Terrence Malick.
Eternal: valutazione e conclusione

Al netto dei grandi riferimenti — talvolta omaggiati con forza, altrimenti sprecati, o peggio dati per perduti — Eternal di Ulaa Salim, proprio perché figlio d’una sensibilità autoriale ed emotiva fortemente riconoscibile e radicata a fondo nello sguardo del cinema danese, estraneo dunque a quello hollywoodiano, ha il grande merito di fotografare e incidere con forza la naturalezza dei sentimenti e la prova di due interpreti mai forzata e in continua esplorazione.
Elias e Anita, come accaduto a molti di noi, si desiderano, si comprendono e si vivono a fondo. Per poi, da un giorno all’altro, aprire gli occhi di fronte alle verità di quella comprensione necessaria, libera e sfrenata, che solo gli amori belli e veri possono permettersi di avere e proteggere. Ne deriva la fotografia dolorosa e lucida di due rotte di vita ben distinte, impossibilitate dunque a incrociarsi e incontrarsi ancora. Ciò che segue è l’addio, e la speranza che nulla venga dimenticato. Chi ha vissuto qualcosa di simile, di certo parteciperà più attivamente ai tempi distesi, ma mai tediosi, di Eternal. Chi, invece, non ha ancora avuto questa fortuna, può godersi tutto il resto. Che, comunque, non è affatto male.
Sugli amori delle nostre vite e, ancora, il legame misterioso, complesso e insostituibile che intercorre tra padri e figli. Non importa in quale tempo e luogo sia esistito. Se quell’amore c’è stato, resisterà e resterà. Sempre.
Regia 3,5
Sceneggiatura 3,5
Fotografia 3,5
Recitazione 3,5
Sonoro 3,5
Emozione 3,5