The History of Sound: recensione del film da Cannes 2025

Il film di Oliver Hermanus, presentato in concorso alla 78ª edizione del Festival di Cannes

La storia del suono è la storia di un amore, un amore proibito, non detto, delicato, che sfiora e poi sfugge, silente e rallentato; il regista e scrittore sudafricano Oliver Hermanus – già autore del coming-of-age bellico Moffie e del rielaborato Living con Bill Nighy – porta alla 78ª edizione del Festival di Cannes il suo sesto lungometraggio, The History of Sound. Tratto dall’omonimo racconto breve di Ben Shattuck – anche autore della sceneggiatura – il film affida il proprio cuore narrativo e visivo a due volti del cinema contemporaneo: Paul Mescal (Aftersun, Normal People) e Josh O’Connor (Challengers, La chimera), nei panni di Lionel e David, due giovani musicisti, a cavallo della Prima Guerra Mondiale. Completano il cast Chris Cooper nel ruolo del Lionel anziano, insieme ad Hadley Robinson, Briana Middleton e Raphael Sbarge. A curare la fotografia è Alexander Dynan, storico collaboratore di Paul Schrader, mentre il montaggio è firmato da Chris Wyatt. Dietro la produzione Film4, End Cue, Closer Media e Tango Entertainment, con un impianto produttivo che si estende tra Massachusetts, New Jersey e Tarquinia, in Italia. Un apparato tecnico e artistico che sembra costruire un ambiente sonoro e visivo in cui la narrazione possa muoversi, ma essa non sembra farlo agevolmente.

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Una storia sottotono

The History of Sound cinematographe.it

Lionel (Paul Mescal) è un giovane cantante del Kentucky cresciuto tra le canzoni che il padre intonava sul portico. Nel 1917 si trasferisce a Boston per studiare musica e qui incontra David (Josh O’Connor), brillante compositore dal fascino calamitico, poco prima che quest’ultimo venga arruolato per il fronte. Passato il primo conflitto mondiale, nel 1920 i due si ritrovano per intraprendere un viaggio lungo le foreste e le isole del Maine, allo scopo di raccogliere e registrare canti popolari americani dalle più straordinarie voci scovate tra un paese e l’altro. Un itinerario sonoro e sentimentale che racconta di un’America minore, di un’America intima. I due giovani attraversano paesaggi isolati, incontrano cantanti dimenticati, famiglie contadine, comunità sradicate, e in ogni voce registrata sembra emergere un riflesso della loro stessa interiorità (e questo è, senza dubbio, il motivo di maggior interesse del film). L’opera poi si stacca dal doppio e segue solamente Lionel nei sulle peregrinazioni successive, tra l’Europa e nuove esperienze, mentre il ricordo di David e di quel viaggio resta una ferita incisa nei solchi del vinile e nei silenzi lasciati in sospeso.

L’operazione di Oliver Hermanus si muove in un registro contemplativo che finisce per diventare ostaggio del racconto da cui proviene. L’adattamento pare troppo legato alla parola scritta, al non detto della pagina, e fatica a tradurre in immagine l’intimità che descrive. Il suono, motore iniziale della narrazione, avrebbe potuto costruire una partitura di significati condivisi, una grammatica emozionale capace di connettere i protagonisti – e lo spettatore – ma diventa semplice cornice per una storia d’amore rarefatta, quasi invisibile. Le inquadrature si riempiono di spazi già noti, di dinamiche strutturali che riecheggiano da pellicole passate. Le tematiche dell’identità, della sessualità repressa, della memoria collettiva e personale, ci sono ma lontane, opache, ovattate; la musica incornicia ma non affonda, non ci penetra, penetra i protagonisti ma solo a parole, solo a silenzi. Eppure, proprio nella memoria, nel legame tra suono e ricordo, risiedeva il possibile centro emotivo del film: ciò che resta di una relazione, e ciò che si prova a ricostruire, tramite il suono, attraverso le immagini.

The History of Sound: valutazione e conclusione

The History of Sound Josh O'Connor, Paul Mescal cinematographe.it

Lento, prolungato oltre misura, The History of Sound si muove in un tempo dilatato che non riesce a farsi mai attesa. Gli sguardi si moltiplicano, i silenzi si accumulano, ma la tensione non prende mai forma. I protagonisti, pur dotati di notevole carisma individuale, non riescono a costruire una dinamica relazionale che catturi davvero. Manca la chimica, manca l’urgenza. I brevi dialoghi disseminati lungo il percorso appaiono come tentativi dichiarati di profondità che però non riescono ad affondare. Le immagini sembrano sempre dire che qualcosa accadrà, ma quel qualcosa resta inaccessibile. La musica, che poteva essere strumento e medium di un’intimità nuova, si limita a restare sottofondo, occasione mancata. Quella che avrebbe potuto essere un’indagine sull’eco dell’amore nel tempo, rimane solamente la variazione di un tema già sentito. In un Festival di Cannes all’insegna dell’innovazione e della femminilità, una pellicola scontata fatta di soli uomini perde la sua presa. La noia si insinua tra le pieghe del montaggio, la durata appesantisce, l’essenzialità manca. Un film che non si rivela mai necessario, e che replica forme e racconti senza riuscire a reinventarli.

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Regia - 2.5
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 3.5
Recitazione - 2.5
Sonoro - 3
Emozione - 2.5

2.8