Stefano Skalkotos si racconta oltre Lift: “Un giorno mi piacerebbe recitare per Marco Bellocchio”

L’intervista all’attore padovano Stefano Skalkotos, tra i protagonisti di Lift, l’heist movie in alta quota diretto da F. Gary Gray per Netflix.

C’è un bel po’ d’Italia nell’ultima fatica dietro la macchina da presa di F. Gary Gray dal titolo Lift, l’heist movie targato Netflix, rilasciato sulla piattaforma a stelle e strisce lo scorso 12 gennaio 2024. Oltre alle splendide location che hanno portato la produzione a realizzare alcune scene della pellicola a Venezia, Trieste e Cortina, c’è anche un pizzico del Bel Paese nel super cast internazionale a disposizione del cineasta americano. Nel parterre de rois di attori e attrice troviamo il padovano Stefano Skalkotos, che nel film veste i panni di Stefano, un carabiniere italiano che si occupa di tutela dei Beni Culturali. L’abbiamo incontrato a pochi giorni di distanza dall’uscita del film che lo ha visto recitare al fianco di Kevin Hart, Gugu Mbatha-Raw e Sam Worthington, cogliendo l’occasione rivolgergli alcune domande.

La nostra intervista a Stefano Skalkotos, tra i protagonisti del film Lift nel ruolo del Carabiniere Stefano

intervista a Stefano Skalkotos cinematographe.it

Come è nata la passione per la recitazione e quando hai capito che sarebbe diventato il tuo percorso di vita e professionale?
Una passione nata sin da bambino, alle scuole elementari. Mi sono sempre divertito ad osservare gli altri e ad imitarli. Da piccolo ero un buon imitatore, mi piaceva intrattenere. Era un gioco che mi dava più soddisfazione di altri e mi faceva stare bene. Una sensazione che non mi ha mai abbandonato. Credo sia per questo che non mi ha mai lontanamente attraversato l’idea di fare altro. Una volta alle Scuole Medie avevo messo in piedi uno spettacolo che abbiamo portato in scena nell’aula magna, avevo come amica la bidella (che ora si dice operatrice scolastica) che si chiamava Elide, io ero simpatico a lei e lei era simpatica a me, ricordo che venne a vedere lo spettacolo e alla fine mi disse (con uno spiccato accento padovano): «tu da grande o attore o avvocato». Troppo pigro per studiare giurisprudenza, mi sono dedicato con coerenza all’arte drammatica. Tuttavia sono un grande fan di Un giorno in Pretura.

Qual è l’aspetto che più ti interessa del mestiere dell’attore e cosa caratterizza il tuo percorso di avvicinamento al personaggio?
Tutto nasce per me dal piacere di osservare. È uno studio un po’ antropologico, se vuoi. Si catturano dei modi di parlare, degli sguardi, un modo di camminare e lo si approfondisce tramite la propria sensibilità, vissuto, esperienza, allineandosi con le esigenze caratteriali che il personaggio ha sulla carta. È un bel mestiere il nostro, perché è sempre in evoluzione. Più cresci, più diventi accurato, sensibile, maturo ed esperto in questo gioco serissimo che in Italia chiamiamo: recitare, recitazione. Uno degli attori italiani che secondo me ha rappresentato meglio questo gioco è stato Gianrico Tedeschi, più invecchiava e più si avvicinava ad una perfezione artistica. Paradossalmente più andava avanti con gli anni e più il suo stile era fresco, contemporaneo. Parliamo di Teatro, quindi esercizio difficilissimo. Un mostro sacro.

Stefano Skalkotos: “Penso che in questo lavoro la qualità della scrittura di un copione, di una sceneggiatura, rappresenti il 50% del risultato

intervista a Stefano Skalkotos cinematographe.it

Cosa guida le tue scelte? Cosa influenza la decisione di prendere parte a un progetto piuttosto che a un altro?

Penso che in questo lavoro la qualità della scrittura di un copione, di una sceneggiatura, rappresenti il 50% del risultato. Al di là dei generi. Sono curioso e mi piacerebbe attraversarli tutti possibilmente. Ma la qualità di un testo si intuisce subito. Quello fa la differenza, non mi importa se il mio personaggio è buono o cattivo, se è un a-morale, se è violento, oppure uno stupido. L’importante è che sia scritto e approfondito bene sulla carta. Questo mi aiuta molto nella mia parte di indagine. Può capitare, ma è raro, di incontrare registi che hanno solo una visione – prima di un copione – e sanno affascinarti a tal punto che potresti iniziare a girare o a provare dal giorno dopo, fidandoti totalmente e con l’astratta convinzione che nulla potrà andare per il verso sbagliato.

Quali sono state le tappe che ti hanno portato ad essere scritturato per il ruolo del carabiniere Stefano in Lift?
Ci sono stati diversi step. Ovviamente tutto è partito con un provino, ma inizialmente si trattava di un ruoletto di poche pose presente solo nelle riprese veneziane e nominato genericamente come “Italian agent”. Poi le cose sono cambiate da un momento all’altro. Ma andiamo per gradi: Gary Gray oltre al provino sulle due scene che mi avrebbero riguardato (avevo quattro battute e due reazioni), volle una lettura di uno dei monologhi del protagonista. Monologo scritto benissimo e poi a me la lingua inglese piace perché è molto dritta e non si perde in fronzoli, quindi mi sono molto divertito in questa richiesta aggiuntiva del regista. Da lì a un paio di settimane arriva la risposta che Gary Gray aveva molto apprezzata la mia lettura e quindi mi avrebbe scelto per quel piccolo ruolo. I primi di maggio parto per Venezia, ma con la convinzione di starci tre giorni e poi fare rientro a Roma. Dopo il secondo giorno di riprese tutto cambia. Mi chiama la mia agente e mi dice che la Produzione vorrebbe che il mio personaggio proseguisse a Trieste, Belfast e poi Londra per le riprese negli Studios. Gary aveva deciso di sviluppare il mio ruolo, che da Italian Agent è diventato Stefano, il carabiniere in borghese che si occupa di tutela di Beni Culturali, di supporto ad Abby (GuGu Mbatah-Raw) e al capo supremo Dennis Huxley (Sam Worthington) e a suo modo determinante in una delle scene finali di questo heist movie. Ecco come sono stato travolto dall’avventura di Lift. In sintesi: non rifiutate mai un piccolo ruolo a prescindere, soprattutto se vi trovate su un set americano.

Quale o quali tra gli importanti attori con i quali hai collaborato sul set di Lift ti ha più sorpreso?
Il mio personaggio interagisce soprattutto con GuGu Mbatah-Raw e Sam Worthington. GuGu credo sia un’attrice straordinaria, i suoi occhi parlano prima delle sue parole e ti porta a livelli altissimi di recitazione. Questo succede solo con i grandi. Per Sam vale lo stesso, con lui ho condiviso varie scene, ho imparato tanto e abbiamo scambiato molte chiacchiere nelle pause, parlando delle nostre rispettive idee sul nostro mestiere. Persona di un’umiltà, semplicità e talento incredibili. Anche incontrare Jean Reno sul set e vederlo lavorare è stato incredibile. Quando l’ho incontrato a Trieste sono rimasto imbambolato una trentina di secondi prima di salutarlo e presentarmi, per me lui è sicuramente Lèon, ma soprattutto Enzo Molinari ne Le Grand Bleu di Luc Besson. Considera che sono stato due volte ad Amorgos – l’isola greca dove hanno girato – dopo aver visto quella pellicola.

Stefano Skalkotos: “Sul set di Lift ho avuto la possibilità di recitare al fianco di grandi attori come GuGu Mbatah-Raw e Sam Worthington

Intervista a Stefano Skalkotos cinematographe.it

GuGu Mbatah-Raw e Stefano Skalkotos in una scena di “Lift”

Ci sono state delle difficoltà nell’interpretare il personaggio di Stefano e quali sono gli elementi che più ti hanno interessato di lui?
Assolutamente sì e ti ringrazio per la domanda, perché ritengo che siano più le difficoltà rispetto ai fasti di una mega produzione a determinare l’esperienza, almeno la mia. Sai, quando da un giorno all’altro ti comunicano che il tuo ruolo è stato sviluppato, che le tue battute moltiplicano e che – ovviamente – la lingua non è la tua, io credo che la domanda «sarò all’altezza?» come minimo ti sfiori. Per me questa domanda è stata il motore che mi ha portato a portare a compimento questa avventura. Ti racconto un piccolo aneddoto che riguarda anche Sam Worthington: il giorno prima di partire per Belfast mi arriva una mail che mi comunicava che le battute della scena che dovevo girare con lui erano state cambiate e sviluppate. Il senso rimaneva lo stesso, ma le parole cambiavano. Se ti capita in Italia anche un’ora prima del ciak, il problema è relativo, ma in un altra lingua non è cosi facile, almeno per me. Cerco di re-imparare tutto a memoria durante viaggio e la serata in hotel. Il giorno dopo siamo sul set e non ho vergogna a dire che i primi due ciak sono stati faticosi. Sam mi si è avvicinato e mi ha detto: «Quando recitiamo mi piace vedere dai tuoi occhi che pensi a tutto quello che dici, la cosa buffa in questo caso è che ti vedo pensare due volte: una in italiano e una in inglese. Se dovessi recitare io nella tua lingua potremmo stare qui tutto il giorno. Don’ Worry!». Questo incoraggiamento credo dia la misura dell’uomo e dell’attore che è Sam Worthington: umanità, umiltà e giusta dose di ironia. Mi ha aiutato tantissimo in quel caso. Per ciò che riguarda il personaggio di Stefano, mi piace pensare che il suo carattere si sia determinato anche rispetto alle mie sensazioni di attore e di uomo dentro questo set, ovvero: cercare di essere all’altezza, essere travolto da qualcosa più grande di me e cercare di offrire il meglio attraverso la mia sensibilità, il mio istinto e la mia professionalità. Credo che questo abbia caratterizzato anche il personaggio. Il desiderio di fare la cosa giusta, infine, porterà Stefano ad essere -a suo modo- determinante in una scena piuttosto clou di questo film.

Che tipo di regista è Gary Gray e come ti sei trovato a lavorare con lui?
Credo che Gary Gray sia sicuramente un maestro del genere. È un capitano che tiene ben saldo il timone della sua nave per condurla in porto. Ma non dimentichiamoci che Gray è anche il regista di Straight Outta Compton: film tostissimo di denuncia e riscatto sociale. Dico questo perché in Gary ho trovato una personalità curiosa, dotata del grande piacere della scoperta. Sensibile, accurato, attento a tutto e a tutti. È chiaro che il mio grazie più grande non può che andare a lui, poiché ha creduto in me più di quanto io credessi in me stesso in questa occasione e l’ha fatto con grande etica, grande professionalità e con il grande sorriso che lo contraddistingue. Ho una bellissima foto che ci hanno fatto agli Shapperton Studios di Londra, il giorno in cui le mie riprese sono finite. Mi fa piacere condividerla con voi, perché sono certo parli più di tante parole!

Intervista a Stefano Skalkotos cinematographe.it

Stefano Skalkotos e il regista F. Gary Gray sul set di “Lift”

Cosa ti porterai dietro in termini professionali dell’esperienza in Lift?
Il bagaglio è enorme e paradossalmente molto leggero, nell’accezione che Italo Calvino ha voluto dare a questa bella pala. Quindi se posso ti rispondo citandolo: «Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore».

Una volta visto il film e il risultato finale, quale o quali ritieni siano i punti di forza di Lift?
Lift è un bel film di intrattenimento, dove a livello di cast credo che si sia determinata una bella eterogeneità. Questo heist movie è stato sicuramente pensato per la grande piattaforma che è Netflix e per i suoi utenti vecchi e nuovi. Ma soprattutto lascia intravedere un seguito: o un 2 o addirittura una serie, dove potenzialmente i personaggi potrebbero essere più sviluppati. Non so questa è l’impressione che ho avuto io.

C’è, tra quelli a cui ha lavorato, un ruolo in particolare in cui ti sei ritrovato e in cui ti sei riconosciuto?
Sicuramente quest’ultimo per i motivi citati prima. Ma in generale penso che in ogni personaggio che siamo chiamati ad interpretare (questo vale per Cinema, per il Teatro e anche per il Doppiaggio) portiamo una piccola o grande parte di noi, quella che più si attaglia alle caratteristiche del ruolo. Io normalmente passo per essere un “buono”, vengo spesso coinvolto in casting dove si cerca il personaggio bonario e dalla faccia rassicurante. Da una parte un po’ questo mi dispiace, perché potrebbe togliermi la possibilità di esplorare altri caratteri, dall’altra se non ci fosse questa visione di me non avrei mai interpretato Corrado Mantoni, che con la sua faccia bonaria e la sua signorilità fece la storia della radio e della televisione italiana.

Stefano Skalkotos: “In Italia mi affascinerebbe molto recitare per Marco Bellocchio e magari lavorare con attori come Paolo Pierobon

Intervista a Stefano Skalkotos cinematographe.it

Sam Worthington e Stefano Stalkotos in una scena di “Lift” Ph. Cristiano Montesi/Netflix © 2023

In questi anni hai avuto modo di interpretare personaggi realmente esistiti come Corrado Mantoni in Permette? Alberto Sordi, Giorgio Mondadori in Arnoldo Mondadori – I libri per cambiare il mondo e Carlo Sama nel docufilm Raul Gardini. In che modo questo ti responsabilizza e come avviene la tua preparazione?
Sono molto attratto dai biopic che ti consentono di interpretare personaggi realmente esistiti, proprio perché – come dici tu- c’è questa dose di responsabilità. Per Corrado Mantoni ha giocato a mio favore una somiglianza fisica e di colori e la mia capacità ludica di riprodurre le voci. Il mio lavoro in questo caso si è concentrato nell’attenzione recitativa a non crearne una macchietta, quindi mi sono focalizzato più nel lavoro sul corpo. Mi spiego meglio: negli anni ’40 le persone non gesticolavano e non si muovevano come oggi. C’era un maggiore contengono, una maggiore eleganza. Lo stesso dicasi per Giorgio Mondadori, che ho accompagnato dagli anni ’40 ai primi anni ’70 e in questo caso ha giocato un ruolo fondamentale il reparto costumi, trucco e parrucco. Mi hanno conciato ad arte, era impossibile sbagliare quando dei grandi professionisti ti vestono, ti pettinano e ti invecchiano così bene. Mi sento di dire che Magda Accolti Gil, Italo Di Pinto e Davide Trani (e i loro assistenti) mi hanno aiutato tantissimo. Per la mia piccola partecipazione come Carlo Sama è stato fondamentale un aspetto: mio padre negli anni ’90 mi faceva vedere il processo Mani Pulite in televisione. Sono arrivato al bionico su Gardini conoscendo perfettamente la storia e la figura di Sama. Gli ho aggiunto solo un po’ di sporcatura ravennate e la R un po’ moscia.

Rispetto alla tua carriera e alle scelte fatte in questi anni, ci sono dei particolari rimpianti o dei ripensamenti?
No, non direi. Forse fare un’esperienza di studio all’estero, magari a Londra dove ci sono delle scuole di recitazione di grande livello, sì forse quello mi è mancato. Ma ho recuperato, dai!

Nel tuo futuro cosa vedi? Ci sono degli artisti e, in particolare, dei registi con cui vorresti tanto collaborare?
Per una volta vorrei non concentrarmi troppo sul futuro. Negli anni questo sguardo al futuro mi ha stressato molto. Mi godo questa bella esperienza di Lift, che ovviamente spero porti altro. So che in Italia questo non è scontato, quindi sto studiando meglio l’inglese per aprirmi ad altre possibilità. Ma ripeto, lo faccio con uno sguardo più contemporaneo, che per me significa avere un occhio al passato, l’attenzione al presente, per essere eventualmente più pronto verso quello che verrà. Ci sono molti artisti con qui mi piacerebbe collaborare, qui in Italia mi affascinerebbe molto recitare per Marco Bellocchio e magari lavorare con attori come Paolo Pierobon che io trovo eccezionale. All’estero penso a registi come Steven Zaillian e ovviamente sto invidiando molto (con tutta la stima) Riccardo Scamarcio che sta lavorando con Al Pacino. Al Pacino per me è un faro!”.

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