Tekla Taidelli: intervista alla regista maledetta di 6:06, “l’araba fenice mi fa un baffo!”
Tekla Taidelli s racconta oltre 6:06. Una vita dannata, un cinema che dà voce agli invisibili e una storia che parla di droga, amore e rinascita.
Vestito nero e stivali fucsia. Quando Tekla Taidelli raggiunge Ortigia, appoggiandosi a delle stampelle per via di un’infiammazione alla caviglia, l’ambiente cambia improvvisamente spirito. Di colpo tutto intorno diventa colloquiale, istintivo, libero e la sua voce disegna una strada da percorrere a occhi chiusi, una di quelle che sanno di vita. Martoriata, smarrita, vissuta al massimo, ripresa per i capelli: la regista milanese classe 1977 porta nei suoi occhi mille storie, tutte vissute sulla sua pelle: la fuga dalla famiglia, la vita di strada, le droghe, i ragazzi a cui insegna a fare cinema “co’ du spicci”, come dice lei (“ma scrivi con poco budget!), i rave party e quell’etichetta bonaria affibbiatale da Claudio Caligari che, quando vide il suo Fuori Vena, disse “chi sarà così coglione da fare un film come il mio (Amore tossico, uscito nel 1983, che fece aggiudicare al suo autore una denuncia per incitamento allo spaccio e all’uso della droga)? E l’hai fatto tu. Ti offro da bere! Mi disse: se ti dice culo, farai tre film, perché cioè, ora sei bannata, sei una regista maledetta.”
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La nostra conversazione inizia più o meno così, parlando dell’autobiografia che c’è nei suoi film, a partire proprio dalla sua opera prima (il già citato Fuori Vena), che la regista ricorda di aver fatto quando era una giovane punk, per ricordare la sua storia con l’ex fidanzato, morto a causa dell’eroina. “Dopo in realtà non ho più fatto film, non perché fossi stata bannata, maledetta, ma perché sono morti tutti, anche quelli della troupe, che era molto hardcore. E quindi ho giurato di non fare più film, perché è stata una sofferenza produttiva”.
Tekla Taidelli: una vita spericolata

Cosa ha fatto quindi Tekla Taidelli in tutti questi anni?
“Ho continuato a fare scuola di cinema per vent’anni, ho creato la mia scuola di cinema di strada, con i miei discepoli. Ho comunque continuato la mia missione cinematografica, che era quella di dare voce all’invisibilità, alle strade, alle borgate, alle piazze carcerate, agli emigrati, con un neorealismo che io chiamo underground, un Pasolini punk (dicono!), con testi di autori famosi, tipo Shakespeare, Bukowski recitato dagli homeless… ho fatto Pasolini, poesia in forma di prosa…, cose bellissime, però sempre corti, con i miei discepoli.”
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Insomma, l’epilogo del primo film le crea un vero e proprio shock, perché di fatto quasi tutti muoiono. “Era gente che viveva la vita a 300 all’ora, come dice Philip Dick,” – precisa – “perché l’abuso di droga è come guidare una macchina ad alta velocità: se non c’è hai la patente col Ferrari ti ammazzi”.
Ma poi succede che va a Spazio Fontanella, ospitata da Jacopo Picca di Illmatic Film Group, “che ha poi collaborato al film, e inizia dirmi: devi fare un altro film, devi fare un altro film, ma io no, dicevo: non lo voglio fare! Insomma, mi spinge in tutti i modi a fare un film, mi indica un bando, Il cinema e la strada, e tutti i miei ex allievi (ne ho formati almeno 300) iniziano a fare un corto, un piccolo soggetto. Il bando scadeva a mezzanotte, io ho mandato il soggetto di 6:06 alle 11.58.
Tekla Taidelli spiega che la prima idea di 6:06 riguardava unicamente la parte in bianco e nero, con l’idea del loop per rappresentare il vortice della droga. Ma in tutto questo Tekla è ancora convinta di non voler girare un film, di voler lasciare unicamente quel bianco e nero, quella negatività, persino con un finale triste.
“Ogni giorno Leonardo (il protagonista di 6:06) vive nel loop della droga: è sempre lunedì. Finalmente il Giorno della Marmotta, che è stato fatto in tutti i modi, anche Albanese l’ha fatto… ma nessuno l’ha mai fatto con le droghe e, se ci pensi, la droga è inesorabilmente un loop allucinante, si rivive sempre lo stesso giorno di droga, di distruzione. Pian piano, in 6:06, la prospettiva si stringe sempre di più, il protagonista impazzisce, l’inquadratura arriva uno a uno, Leonardo corre e scappa, crede di buttarsi in un fiume (questo è autobiografico) invece è un’autostrada”.
Il film doveva chiudersi così, racconta Tekla Taidelli: “finiva con una parte a colori piccolina e col fatto che era martedì e lui pensava fosse finito l’incubo e invece no, tornava a lunedì”.
Tekla Taidelli, il suicidio del padre e come ha imparato a “vivere a colori”

Ma dopo accade che, da buona neorealista, che parte sempre dal reale, va in Portogallo, incontra i suoi amici artisti che la invogliano a fare un lungometraggio, mentre lei tira dritto: ha già messo da parte 6:06 e pensa a lavorare su altro. Ma loro insistono: l’idea di 6:06 è perfetta, va solo integrata con la sua parte positiva. “Tu sai vivere a colori, mi hanno detto, tu hai imparato esattamente a vivere a colori, tu non sei mai più tornata nel bianco e nero! E quindi mi lanciano la sfida, penso che davvero sto costruendo questa vita a colori e il processo creativo stavolta è diverso. Mentre in Fuori vena ho raccontato la mia storia con Alessandro, quindi la mia sofferenza, in 6:06 ho costruito all’inverso, cucendo la mia vita sui protagonisti”.
Cosa puoi dirci sugli attori?
“Davide Valle, l’attore protagonista, è molto Leo. Lui è la mia parte dannata, la mia parte in bianco e nero, George Li invece è la mia parte sana. Diciamo che Davide è meraviglioso dannato, è la me di 26 anni, con lui abbiamo costruito un rapporto viscerale, sanguigno, pazzesco e mi ha aiutato molto nel film, è stato proprio un co-scieneggiatore.
A un certo punto, in Portogallo, avevo scelto questa tipa, Céline, una surfista francese di 37 anni. Ma Davide sclera di brutto, dice che non va, che non matcha. Così prendiamo una ventenne, ma nel mio film la protagonista parla francese e lui romano, dove la trovo una ventenne che parla francese a Roma? È il 25 aprile e facciamo un casting (io non faccio mai i casting!), invoco mio padre, che è morto suicida (infatti la scena del suicidio è dedicata a lui), gli chiedo ‘papà aiutami tu!’. Provo una spagnola, perché mi serviva comunque che parlasse un’altra lingua, ma con lo spagnolo non va, è una tragedia!
È il 3 aprile ed entra lei, spacca tutto, Davide inizia a piangere, le chiedo come si chiama e lei risponde George… mio padre si chiamava Giorgio“.
George Li “è Tekla da giovane, ma senza droghe”

Inoltre, ci svela l’autrice, George Li è l’unica attrice professionista con la quale ha lavorato poiché, essendo neorealista underground, prende sempre attori di strada, esattamente come Davide, che vive “nelle case popolari, è esattamente ‘quella roba lì’. Invece George no, le ho dovuto cucire addosso Tekla, perché lei è Tekla da giovane, ma senza droghe. Ha indossato la mia giacca, il mio stile punk, al punto che quando mia madre l’ha vista ha detto ‘sei tu!’ e mi ha imitata. Quando mi ha chiesto come fare a imparare le ho detto di imitarmi per un mese, infatti quando si mangia la pasta e la marmellata con le mani, lì mi imita. Si è cucita addosso me, ha avuto questa responsabilità”.
L’amore, in tutte le sue forme, mi ha salvata dalla dannazione
Parlando della lingua, è interessante come il dialogo tra i due giovani si svolga nonostante la differenza linguistica: lui parla italiano, lei francese. Non si capiscono eppure, dopo i primi momenti di imbarazzo e delirio, si comprendono tranquillamente, “perché a livello delle anime si parla la stessa lingua”, spiega Tekla Taidelli, “[in 6:06] c’è questo livello onirico in cui tutto è concesso, questo livello proprio pazzo, perché l’amore è pazzo, è uno spazio in cui puoi fare tutto quello che vuoi, in cui tutto è concesso. Nei sogni loro parlano in italiano, perché l’anima comunque riesce a capirsi, è al di sopra di ogni livello, di ogni lingua, ogni religione, ogni colore. L’idea quindi era proprio quella di rappresentare questo livello, che è molto autobiografico”.
La regista, poi, precisa che l’amore a cui fa riferimento non è unicamente l’amore per un uomo, “ma l’amore in tutte le forme, quello che mi ha salvato dalla mia dannazione. Come dico sempre: cadi sette volte e rialzati otto. Io sono caduta un sacco di volte: mio papà si è tolto la vita, ho avuto una vita abbastanza difficile, quindi conosco perfettamente la caduta“.
6:06 non è solo un film ma una catarsi, la rinascita di Tekla Taidelli: “l’araba fenice mi fa un baffo!”

È un fiume in piena Tekla Taidelli e quando qualcuno le fa cenno di parlare meno lo ignora con simpatia e continua a raccontare la sua vita, la sua carriera, che è tutta un viaggio verso il meraviglioso e l’assurdo. Ci racconta dei rapporti viscerali che crea sul set, del fatto che tutta la troupe sapesse che con 6:06 stava mettendo in scena la sua rinascita e di quanto fosse difficile per lei girare la scena del suicidio. È stato Davide Valle, però, a insistere, inizialmente “voleva lanciarsi da una scogliera. Due giorni prima delle riprese invece mi dice: voglio fare come tuo padre, voglio che sia terapeutico per te, che sia catartico, salvifico. Mi ricordo che la sera sono andata al porto a cercare queste corde, ero distrutta. La cosa bella era che tutti sapevano e che lo stavano facendo per me, per me che ho avuto una vita dannata, distruttiva (nonostante la scuola di cinema). Quindi scelgo le corde e tutto e quando giriamo la scena succede una roba molto potente, lì mi sono accorta che non era più un film, era metacinema, era catartico, aveva un potere salvifico, tipo Jodorowsky, cioè una roba psicomagica“.
La regista, che dice di fidarsi ciecamente della sua troupe e perciò non avere la necessità di guardare il monitor – “il direttore della fotografia è il mio ventricolo destro” – racconta di essere scoppiata in lacrime, dopo aver girato quella scena e di aver abbracciato i protagonisti, Davide e George.
“Ti ripeto, io penso che nel cinema si deve dare voce agli invisibili, è una missione che serve a dargli dignità. E io stavolta ho dato voce e dignità a me stessa, perché ho un passato che non auguro a nessuno, l’araba fenice mi fa un baffo!”
“Cinema partigiano”: è una di quelle espressioni che si ripetono spesso nella tua grammatica.
“Si, il cinema indipendente, io li chiamo i partigiani del cinema, anche se sono più dei pirati secondo me. Mi è venuto in mente dopo aver visto un film con Lorenzo Crespi, in cui era un figo! E si, lì faceva il partigiano, con tutti questi pazzi che lo seguivano. Io con la mia voglia di fare e con la mia truppa ho tirato su un film con due spicci, un film che vale 300 mila euro.
Eh non posso dirti quanto spendo che il mio produttore non vuole, però calcola solo che quando sono andata a prendere le lenti questo mi fa: ‘il partigiano Alessandro Chiodo mi ha detto di dartela a poco prezzo’, ti ho detto tutto! E quindi si, partigiani del cinema! O pirati, meglio! Ma non è una troupe la nostra, c’è un rapporto sanguigno, è famiglia”.
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6:06 è carico di simboli. C’è la sinestesia di Pascoli, “odore di fragole rosse”, la maschera all’uncinetto, il rosa che spezza il bianco e nero. E poi c’è quella scena in cui i due protagonisti indossano le maschere antigas, mentre fanno l’amore.
“Sai perché? Ti racconto. Allora, quando è morto mio padre io lo cercavo in tutti, cercavo la sua dannazione per salvarlo. Poi ho ricucito la mia storia autobiografica, che ho cucito addosso a George.
Nel film il protagonista, Leonardo [Davide Valle], è uguale al padre della ragazza [interpretata da George Li] e quindi lei cerca di salvare suo padre. Lui dipende dalla cocaina, è un amore tossico. Tossico, perché in realtà non è che lo ama così com’è: lei vuole salvarlo per riuscire a salvare il padre. Non è un amore autentico, quindi, ma solo un passaggio per salvarsi. È una relazione tossica, irrisolta. Sono due anime perse.“
“La vita non è vincere ma imparare a combattere”
C’è una frase nel film, che tutti conosciamo ma spesso dimentichiamo. Alla fine il protagonista dice alla ragazza: “tu mi hai salvato, però io in realtà mi devo salvare da solo.”
“È la mia vita. Quando ti riprendi da queste esperienze, ti rendi conto che sei tu che ti devi salvare. Io adesso sono buddista, tibetana karmakagyü. E il buddismo dice proprio questo: tu ti risolvi da solo. Il tuo vuoto non lo riempi mai, ci puoi solo mettere dei fiori intorno. È una frase bellissima che avevamo tolto all’inizio: il vuoto non lo riempi, ci puoi mettere dei fiori intorno.
Ecco, quello è il concetto di salvezza: tu sei il tuo epicentro, sei tu che ti salvi, da solo. È quello che è successo anche a me. Volevo tornare a casa mia, rivedere gli stessi posti marci ma con occhi nuovi, dopo i miei percorsi, le mie sanificazioni mentali.
“Con Davide ho tirato fuori molto.” – continua a raccontare Tekla – “Parliamo la stessa lingua. Ricordo quando lui non aveva ancora visto Fuori vena e mi disse: ma perché, secondo te, uno si droga? Era la stessa domanda che io mettevo in bocca alla donna delle pulizie nel film: perché uno si droga? Perché è la distruzione totale, il non voler vedere. È più facile drogarsi che non drogarsi.
La vera sfida è tornare nel tuo mondo senza droghe. Quella è la vittoria vera. Anzi, non è neanche vittoria: combatti. Non vinci mai, impari a combattere. La vita non è vincere, come dice anche il film: non devi vincere, devi imparare a combattere.“
Location, colonna sonora e il Premio SIAE al Talento Creativo nell’ambito delle Giornate degli Autori – Notti Veneziane

“Per quanto riguarda le location e la colonna sonora, è stato tutto un divenire. Le persone con cui ho lavorato sono multitasking: il mio aiuto regista è anche un amico e quasi un terapeuta. Davide ha scritto la sceneggiatura e canta la canzone finale. Persino il vicino ha cantato. Le musiche le hanno create loro, e io le ho scelte con la mia visione artistica. Anche la techno viene dai miei fratelli che fanno rave. La musica finale è cantata da Davide insieme agli assistenti alla regia e ogni giorno si creava questa energia collettiva.“
“È stata un’unione artistica totale, di gente che ama profondamente il cinema e ci crede. Hanno messo cuore, anima, corpo, fegato e vita. Il Premio SIAE non l’ho vinto io: l’abbiamo vinto tutti. È stato un miracolo, un manifesto per il cinema indipendente, la prova che si può cambiare questo sistema. Si può fare. Si deve fare. Anche con due spicci!”
Ultima domanda: questo film l’hai fatto per te o per sensibilizzare il pubblico?
“Entrambe le cose. Per me, perché era il momento di raccontare la mia storia. E per gli altri, perché conosco la sofferenza di questa generazione disillusa, post-Covid, i ragazzi persi nel vuoto pneumatico. Ho voluto trasmettere questa voglia di vivere, dire che la vita è meravigliosa. Perché loro si sono persi, ma un messaggio per tutti può esserci: io onoro la vita ogni giorno e voglio passare questa energia.“