Manuela Zero oltre Cinquantadue: “L’arte da sola non basta”

L'attrice è protagonista di Cinquantadue, cortometraggio presentato al RIFF 2023 e arrivato alla selezione finale del Premio Afrodite

La violenza di genere, la necessità di una sensibilizzazione, l’artisticità al femminile, tanto esuberante da abbracciare ogni forma possibile di sé; a seguito dell’uscita di Cinquantadue, cortometraggio diretto da Andrea Bernardini e Sebastiano Casella, oggi arrivato a concorrere alla finale del Premio Afrodite, abbiamo fatto alcune domande a Manuela Zero, protagonista del progetto e artista in lenta ma continua ascesa, non solo in ambito cinematografico. Partendo da un breve racconto di sé e passando poi ad analizzare il lavoro svolto in occasione del film e a riflettere, così come l’opera stessa, sulla condizione della donna oggi, l’artista si è aperta nel condividere con noi tutte le sue più sorprendenti soddisfazioni e tutte le riserve nei confronti della società e del ruolo dell’artista all’interno di essa.

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Cinquantadue cinematographe.it

Prima di iniziare a parlare del film, soffermiamoci un po’ di te e su quello che è stato fino ad ora il tuo percorso; quando hai scoperto di voler lavorare nel cinema?
“Io parto dal San Carlo di Napoli, dove ho studiato danza e musica e fatto alcuni corsi di recitazione; a sei/sette anni ero già lì. Non era però chiaro quale fosse il mio ramo, ero semplicemente immersa in questa scuola e ho presto capito di voler fare l’artista. Dal San Carlo di Napoli sono poi partiti tutti i rami, tutte le cose che faccio e che ho fatto; è stato un percorso abbastanza naturale, lo studio mi ha dato la giusta preparazione per poter affrontare tante cose. Dopo il San Carlo ho studiato a Cannes, nella scuola di Rosella Hightower, ho fatto l’Aterballetto a Reggio Emilia e sono poi arrivata a Roma, dove un giorno, mentre giravo con mia madre, ho casualmente incontrato Abel Ferrara e Willem Dafoe; io avevo tra i 18 e 19 anni e loro mi hanno proposto di fare un provino, per poi scritturarmi per Go Go Tales. Fu lì che Mario Squillante, manager, mi suggerì di studiare recitazione in maniera più approfondita: mi sono iscritta ad un’altra scuola e ho iniziato a seguire corsi e workshop, senza però tralasciare tutto il resto. Ho sempre cercato di portare avanti tutto, nonostante il fatto che in Italia sia assurdamente complicato; ho avuto l’onore di parlarne anche con Mariangela Melato, la quale mi disse che ci avrei messo parecchio tempo a farmi capire. Dopo tanti anni e moltissimi lavori, vedo che quest’anno le persone iniziano a definirmi un’attrice-cantante”.

Tu sei protagonista di Cinquantadue, cortometraggio che affronta il tema della violenza di genere; quanto è necessario passare dal cinema, e più in generale dall’arte, per affrontare certe tematiche?
“È necessario perché attraverso l’arte, attraverso il cinema e la musica, che è ancora più diretta, le persone riescono a sensibilizzarsi maggiormente. Purtroppo viviamo in un paese in cui la gente fa finta di niente, in cui le cose che accadono durano 3 giorni e poi ce le dimentichiamo; a volte invece un progetto artistico può colpire maggiormente la coscienza delle persone, basti pensare al film della Cortellesi che ha riportato la gente al cinema. Io credo che sia importante che gli artisti si prendano la responsabilità di raccontare, poi purtroppo l’arte da sola non basta, concretamente le cose cambiano se siamo aiutati, bisogna che lo stato possa prendere in mano la situazione in una maniera più forte e decisa”.

Come ti sei trovata ad interpretare un ruolo di questo tipo? Quanto è stato complesso immedesimarsi nella parte di Adele?
“Non è stato semplicissimo perché io sono assolutamente lontana da questo personaggio; quel che è stato interessante è il fatto che, prima di fare questo corto, io abbia parlato con tante donne, cercando di capire qual è il motivo per cui molte di loro non denunciano, e tutte mi hanno parlato di questo stato di oppressione che sentono dentro e che le immobilizza. È stato difficile insomma, un percorso lento e molto umano, durato circa 1 anno e mezzo, che mi ha permesso di entrare in contatto con le donne vittime di abusi e con le associazioni che se ne occupano “.

Com’è stato lavorare con i registi, Andrea Bernardini e Sebastiano Casella, e al fianco di Maurizio Tesei?
“Innanzitutto questo ero il loro primo lavoro ed è stato bellissimo perché avevano negli occhi la meraviglia di chi sta facendo una cosa per la prima volta; è rarissimo trovare delle persone così attente, così rispettose, anche di quello che ti stanno affidando. Abbiamo fatto tante prove, che ora quasi nemmeno si fanno per un corto, e durante tutta la preparazione si sentiva quanto tutte le persone coinvolte ci tenessero al progetto, da Davide Manca, che ha curato la scenografia, a Tommaso Agnese, che ha collaborato alla direzione artistica”.

Il cortometraggio, presentato quest’anno al RIFF – Rome Independent Film Festival, ha ora conquistato la finale del premio Afrodite; vuoi dirci tu di cosa si tratta?
“L’Afrodite è un concorso che mira a mettere in risalto il lavoro delle donne e aiuta le artiste emergenti, le giovani registe e tutte coloro che lavorano nell’audiovisivo a venire fuori con progetti importanti. Ogni anno selezionano dei cortometraggi, sia italiani che internazionali, e assegnano premi; è un concorso al femminile, creato per le donne, con le donne”.

Credi che oggi lo sguardo cinematografico si stia evolvendo e stia mostrando una maggior apertura verso la donna?
“Non lo so, è molto complicato dire di sì. Si fanno tantissime cose però a me sembra assurdo che ci sia ancora il bisogno di farle per cercare di avere una pari dignità; poi, soprattutto noi in Italia, facciamo fatica a valorizzare le donne in tutti i campi e c’è ancora una disparità immensa; se si pensa che a Sanremo giovani, ad esempio, tra tutte le donne che si iscrivono ce ne vanno un paio, a dir tanto. Io non ci credo che ci siano donne così scarse, ma purtroppo il mercato si muove in questa direzione. Un altro esempio lo si vede a teatro dove, anche se sei la protagonista, il tuo nome non viene mai messo a sinistra, non è mai il primo nome ed è una cosa che viene data per scontata, è questa l’abitudine”.

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Manuela Zero cinematographe.it

Richiudendo il cerchio e tornando a soffermarci su Manuela e sull’evolversi della sua carriera, abbiamo chiesto all’attrice qualche anticipazione sui suoi prossimi passi, cominciando ad avvertire più approfonditamente tutto quel che ancora quest’artista ha da mostrarci; lei che nel 2018, con lo pseudonimo di La Zero, ammaliò la giuria di Sanremo Giovani con il suo inedito Nina è brava.

Parlando di te, so che sul set di un film a Napoli; cosa puoi svelare? E quali sono, in generale, i tuoi progetti per il prossimo futuro?
“Riguardo al film non posso svelare nulla però presto uscirà una serie su Canale 5, prodotta da Jakie Production e diretta da Tognazzi e Izzo, in cui sono tra i protagonisti; non so ancora quando esattamente ma presto uscirà. Oltre a questo sono felicissima finalmente di poter dire che sto lavorando al mio primo album, che uscirà insieme ad uno spettacolo teatrale, tutto scritto da me e Davide Santi; l’album uscirà a maggio e debutterò con lo spettacolo teatrale a giugno, per poi fare tutta la tournée dell’anno prossimo nei teatri d’Italia. È una cosa nuova, non è un disco, è un progetto musicale accompagnato da uno spettacolo che racconta l’album in maniera allargata. Sono molto contenta perché è un lavoro che vorrei fare da sempre e quest’anno ho trovato il tempo per concretizzarlo. Abbiamo già delle date a Napoli, a Roma, a Milano e non solo. Non voglio dire troppo, da marzo ne parlerò di più: uscirà l’album, che vorrei iscrivere al Tenco, e poi vi aspetterò tutti a teatro.
Ho pensato di fare una cosa senza seguire gli schemi e le regole, è un album che strizza l’occhio agli anni ’60, con un linguaggio molto fresco, e cono contentissima anche perché l’ho presentato ad un’etichetta molto grossa, della quale non posso ancora fare il nome, abituata a sentire tutto un altro tipo di musica, eppure alla fine sono rimasti colpiti. Quello che mi spaventava maggiormente era il fatto che hanno fatto ascoltare il progetto a ragazzi molto giovani, ma loro sono talmente lontani da quel mondo a cui strizzo l’occhio che, per assurdo, trovano il racconto sulla musica di una modernità incredibile”.

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