Antonella Carone su Malamore: “Mi piace lavorare sulle sfumature”
L'attrice è tra i protagonisti di Malamore, opera prima della regista Francesca Schirru in uscita l'8 maggio
L’identità, la famiglia, il senso del dovere, la passione, l’assimilazione dei ruoli; il confronto tra un’attrice ed il personaggio da lei interpretato vive su un confine spesso labile, assottigliato dal talento e dall’attitudine. È questo il caso di Antonella Carone e della sua Carmela, tra i personaggi protagonisti dell’opera prima di Francesca Schirru, Malamore, in uscita nella sale l’8 maggio con 01 Distribution.
Nota al grande pubblico, soprattutto ai più piccoli, per il personaggio di Perfidia nella fortunatissima saga dei Me contro Te, l’interprete nata a Conversano (in provincia di Bari) nel 1988 ha dimostrato di saper passare con disinvoltura da un registro all’altro. Al cinema nel 2020 con Spaccapietre dei fratelli De Serio – presentato al Festival di Venezia – e quest’anno a teatro con 88 Frequenze, un monologo dedicato alla straordinaria storia di Hedy Lamarr – diva e scienziata – che ha scritto insieme alla giovane drammaturga Eliana Rotella, Antonella Carone torna sul grande schermo per un vestire i panni di un personaggio complesso, carico di ombre, che ella affronta con la consueta dedizione al lavoro che la contraddistingue. È legata alla recitazione in maniera viscerale e ama attraversare le sfumature emotive dei personaggi, standoci dentro e restituendone al pubblico le cifre più vere, reali anche quando scomode.
Di seguito la ricca e appassionata chiacchierata che l’attrice ci ha concesso.
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Il Malamore di Antonella Carone: “In Carmela convivono due anime, è autentica”

Chi è Antonella Carone? Com’è nato il tuo rapporto con la recitazione? Con il cinema?
“Spoiler: non so rispondere alla prima domanda! Chi è Antonella Carone? Non lo so, ho anche realizzato uno spettacolo che parla proprio di questo. È difficile spiegarsi, definirsi in poche parole. Ogni volta che ci provo, ho la sensazione di lasciare fuori una parte importante di me. Sono un’attrice, una persona curiosa, una che da piccola era una secchiona, una che ha fatto la giornalista, che è mamma e compagna. Tante cose insieme. Forse è proprio per questo che ho scelto di fare l’attrice: perché in fondo non so raccontarmi in altro modo.
Il palcoscenico è sempre stato parte della mia vita, la teatralità in senso lato mi ha sempre accompagnata, fin da bambina. Da piccola facevo scenette per i parenti, imitavo Andreotti a cinque anni, convinta che Oreste Lionello fosse lui stesso Andreotti. Un giorno, alle medie, grazie a un corso scolastico, ho capito che quella cosa che facevo poteva essere un mestiere. Da allora non ho più smesso. Con un gruppo di amici ci siamo messi a fare spettacoli nel teatro del paese e per tre anni ci siamo autogestiti tutto.
Dopo il liceo sono andata a Roma. Ho provato ad entrare in Accademia, non mi hanno presa ma ho ugualmente capito che lo volevo fare davvero, a prescindere. Così ho iniziato a cercare i miei maestri, quelli da cui imparare, e a costruirmi da sola, sul campo. Perché questo è un mestiere che si impara facendolo, sbagliando, osservando”.
L’8 maggio uscirà Malamore di Francesca Schirru, come descriveresti e racconteresti questo film?
“È un film che parla di relazioni disfunzionali. L’ambientazione mafiosa – quella della Sacra Corona Unita, quindi la mafia pugliese – fa da cornice, ma è più di uno sfondo: è una gabbia, un acquario dove si muovono questi personaggi e le loro dinamiche tossiche. Le relazioni sono esasperate proprio dal contesto criminale in cui vivono. Il contesto le amplifica, le porta all’estremo, ma certe forme di malamore, di possesso, di controllo, le riconosciamo anche nella vita di tutti i giorni.
Nel caso del mio personaggio, Carmela, c’è questa ricerca ossessiva della maternità. È una spinta autentica, ma profondamente inquinata dal contesto: dalla gerarchia, dalla famiglia mafiosa, dal ruolo che le viene imposto. È un desiderio che si trasforma in malessere. Poi c’è la relazione tossica tra Mary e Nunzio che ruota tutta intorno al controllo, alla dipendenza, al bisogno malato dell’altro. Anche Carmela, nonostante sembri forte, all’inizio quasi un’autorità, in realtà è vittima di questo stesso sistema. Lei crede di avere potere, ma capisce presto che è solo un incarico, una funzione.”
Carmela è probabilmente il personaggio più interessante e complesso del film: da una parte la donna forte e di potere, dall’altra la donna mossa unicamente dal lacerante desiderio di diventare madre. Quanto è stato difficile riuscire a interpretare e a raccontare entrambi questi suoi lati?
“Conciliare i due aspetti del personaggio, quello più oscuro e quello fragile, per me non è stato così difficile. Nella vita reale non esiste una divisione netta tra bene e male. Le persone sono complesse, contraddittorie. E quando ho letto il personaggio di Carmela, l’ho trovato subito credibile proprio per questo: perché dentro di lei convivono un’anima più scura, dura, e una più fragile, bianca: quella di una donna che desidera diventare madre. Il lavoro che ho fatto è il tipo di lavoro che amo di più: stare nelle sfumature. Non cercare un “carattere”, ma scavare nelle sfaccettature, nelle contraddizioni. La parte più “gangster”, della moglie del boss, non è stata complicata da interpretare. Quella che mi ha richiesto più attenzione e responsabilità è stata invece la parte legata alla maternità.
Io sono mamma di un bimbo di quattro anni, quindi per fortuna vivo quotidianamente quella realtà. Ma ho tante amiche che, al contrario, hanno vissuto con grande sofferenza, a volte quasi con disperazione, la ricerca di una gravidanza. E allora ho sentito una responsabilità enorme nel raccontare quella parte del personaggio. Per prepararmi ho cercato storie, testimonianze, ho letto molto, ho ascoltato tanto. Mi sono fatta attraversare da quei racconti, senza giudicarli. E poi, per entrare ancora più a fondo in quelle scene – soprattutto quelle nello studio della ginecologa – mi sono aggrappata al sentimento della perdita. Mi sono chiesta quale fosse la perdita che io potessi comprendere e proprio in quei giorni girava un’immagine fortissima: una donna a Gaza che teneva un bambino avvolto in un lenzuolo bianco. Sembrava suo figlio, poi ho scoperto che era il nipote. Ma poco importa. Quell’immagine mi ha colpito profondamente. Per me è diventata il simbolo di un sentimento: la perdita, il lutto, l’amore che non può più concretizzarsi. È stata la mia ancora emotiva durante quelle scene. Anche Carmela, in fondo, vive una perdita. Non di un figlio mai nato, ma della possibilità stessa di diveltarlo. E forse, prima ancora, perde una parte di sé. Come attrice, ho provato a restituire quel vuoto, quella crepa che si apre dentro. E per farlo, mi sono aggrappata a tutto ciò che poteva aiutarmi a sentirlo davvero”.
Come ti sei trovata con Francesca Schirru, al suo primo lungometraggio? Vi conoscevate già?
“È andata meravigliosamente. Ci siamo conosciute ai provini. Già da lì ho capito quanto Francesca fosse una regista molto attenta e, soprattutto, che ha un grande rispetto per il lavoro degli attori. Dialoga tanto, ascolta davvero. Il nostro primo vero confronto sul personaggio è avvenuto proprio lì, prima ancora di girare la scena. Abbiamo parlato tanto, forse mezz’ora, cosa che di solito non succede. Non era una chiacchierata abbozzata, ma un confronto vero, profondo. Io le ho condiviso le mie impressioni, le mie sensazioni su Carmela, e lei ha ascoltato tutto con grande attenzione. Da lì ci siamo trovate subito.
Quello scambio è stato, di fatto, il primo studio del personaggio. Da lì è iniziato il lavoro che poi abbiamo portato sul set. Una volta saputo che il ruolo era mio, abbiamo anche fatto un paio di giorni di prove. E questa è una cosa davvero preziosa, soprattutto nel cinema dove spesso i tempi sono strettissimi.
Le ho raccontato anche qualcosa di me, delle mie esperienze personali. È stato un lavoro basato sull’ascolto reciproco, sull’aprirsi. Poi, certo, la regista è lei, e io amo farmi guidare, lasciarmi condurre. Ma in questo caso è stato davvero un percorso condiviso. Un lavoro fatto a insieme”.
Passato, presente e futuro: i Me contro Te, il teatro e i propositi cinematografici

Guardando al tuo recente passato, cosa è stato per te l’universo Me contro Te? È stato unicamente un arricchimento per la tua carriera o credi che in qualche modo ti abbia anche limitata?
“Per me quella è stata la prima occasione in cui ho potuto portare sul grande schermo un personaggio completamente disegnato da me. Parliamo comunque di un prodotto di genere, un cartoon, chiamiamolo così, rivolto a un target ben preciso: i bambini, ma non ho mai vissuto questa cosa come un limite, anzi. Per come sono fatta io, per il percorso che ho avuto — dove tutto quello che mi è arrivato è frutto di occasioni che mi sono conquistata da sola, senza scorciatoie — ogni esperienza è stata per me una possibilità da onorare, anche i ruoli più piccoli. Con ‘Me contro Te’ è stato lo stesso. Mi sono approcciata a quel personaggio con tutto il rispetto e la cura che metto in ogni ruolo, costruendolo in modo che potesse restare nell’immaginario dei bambini che oggi sono piccoli ma un domani saranno adulti. E magari se lo ricorderanno.
Sicuramente è un prodotto commerciale ma personalmente mi oppongo con forza all’idea che un’esperienza del genere possa essere considerata un limite. Anzi, sono pronta a dimostrare il contrario. Sarebbe stato diverso se io fossi nata dal mondo del web — com’è stato per Luì e Sofì, che hanno costruito lì la loro carriera. Ma loro, infatti, sono un’altra cosa. Hanno poi deciso di realizzare questi film coinvolgendo anche attori professionisti, e io lì ho fatto il mio mestiere: ho recitato, ho creato un personaggio. Non vedo perché questo dovrebbe essere considerato un punto a sfavore”.
Oltre al cinema, però, tu hai anche un importante rapporto con il teatro; ci racconti qualcosa del monologo 88 Frequenze?
“Sì, è proprio lo spettacolo di cui parlavo all’inizio. Ho scoperto la storia di Hedy Lamarr quasi per caso, scrollando su Instagram: era il giorno dedicato alle donne nella scienza, e mi è apparsa la sua immagine. Hedy è stata una figura incredibile: negli anni ’20 studiava ingegneria, poi è diventata attrice, fuggita dal primo marito a Vienna, è arrivata a Hollywood, dove è stata celebrata come la donna più bella del mondo. Ma dentro di lei c’era molto di più: una mente brillante, una genialità che non trovava spazio nei soliti ruoli da femme fatale.
Durante la guerra ha brevettato, insieme a un pianista, un sistema di comunicazione segreta che oggi è alla base del WiFi. Eppure, non fu mai riconosciuta in vita, non ricevette un centesimo da un’invenzione che oggi vale miliardi. È morta sola, dimenticata, in una RSA. Ecco perché per me è una figura potentissima: in lei convivono la genialità e la miseria, nel senso più umano e profondo.
Ho voluto portare questa storia a teatro non per fare una biografia — per quello ci sono i libri o i documentari — ma per restituirle un significato universale, per parlare di identità, di credibilità, di quanto sia difficile essere visti nella propria interezza.
Lo spettacolo, scritto da Eliana Rotella e diretto da Giulia Sangiorgio, è stato coprodotto dalla mia compagnia, Uno e Trino, che ho fondato con Tony Marzolla e Loris Leoci, insieme alla Compagnia Corpora. Il nostro lavoro è anche questo: andare a cercare storie dimenticate che meritano di essere raccontate. E la realtà, davvero, ha tutto. Sta solo a noi far emergere ciò che vale”.
Per chiudere, ad oggi quali sono le ambizioni e i propositi cinematografici e artistici di Antonella Carone?
“Il mio proposito più grande è continuare a fare quello che amo: recitare. Mi auguro di poter continuare a lavorare in progetti che mi appassionano, confrontarmi con nuovi registi, nuove storie, nuovi sguardi. Non ho un desiderio specifico, se non quello di fare film belli, sinceri. Se proprio dovessi sognare, mi piacerebbe tantissimo lavorare con Marco Bellocchio. Sarebbe un onore, un sogno.
Intanto, con la mia compagnia Uno e Trino, stiamo già lavorando a un nuovo spettacolo teatrale. Non posso dire molto, ma posso anticipare che coinvolgerà l’immaginario di un gigante del nostro cinema: Federico Fellini. L’idea è di intrecciare teatro e cinema, come lui ha saputo fare partendo dal varietà. Vogliamo portare il suo spirito e la sua visione anche sul palco, in una forma corale e contaminata. È un progetto ambizioso, ma emozionante. E io non vedo l’ora di dargli vita”.