Le regole della casa del sidro: il significato del film di Lasse Hallström

Tra incontri sentimentali, tragiche scoperte e il fato che irrimediabilmente viene a bussare, un ragazzo cerca il suo posto nel mondo. Una storia intensa, che racconta l’importanza del perdersi per ritrovarsi, e del viaggio come scoperta di noi stessi.

Le trasposizioni cinematografiche dei romanzi sono sempre un terreno delicato, dove si rischia di scivolare facilmente e di rompersi più di qualche osso nella caduta. Non è il caso de Le regole della casa del sidro, film del 1999 diretto dallo svedese Lasse Hallström, re dei drammi e del romance drammatico grazie a titoli come Buon compleanno Mr. Grape e Chocolat. Ad adattare il romanzo del 1986, infatti, è lo stesso autore John Irving, che non solo partecipa al film con un cameo – è il capostazione che vede partire e tornare il protagonista, Homer – ma compie un lavoro così eccellente da meritare un Oscar per la sceneggiatura non originale.

Con pathos e umorismo, dramma e romanticismo, buoni sentimenti e conflitti interiori, Irving “pulisce” il suo romanzo degli aspetti più crudi e, insieme a Hallström, crea un racconto di formazione intenso ed emozionante, un film che parla di crescita, e che ci porta a seguire Homer nel suo viaggio alla scoperta del mondo e di se stesso. Un viaggio che riguarda tutti noi e con cui è facile immedesimarsi: chi, infatti, non si è sentito almeno una volta in contrasto con i propri genitori? Chi non ha mai sentito nel petto il fuoco della ribellione, il volersi opporre a una vita che ci sembra stretta?

È proprio quello che succede a Homer (Tobey Maguire), cresciuto nell’orfanotrofio di St. Cloud nel Maine sotto la guida paterna del suo fondatore Wilbur Larch (Michael Caine), che l’ha tenuto con sé come figlio adottivo, insegnandogli tutti i segreti del suo mestiere. Sì, perché l’uomo che tratta i ragazzi dell’orfanotrofio come figli suoi è un medico umanista e abortista in un anno – il 1943 – in cui la pratica è vietata per legge. Il dottor Larch vorrebbe lasciare tutta la sua eredità al ragazzo, ma Homer rifiuta categoricamente la visione del mondo del suo padre adottivo, e appena può fugge via: la sua occasione sono una giovane coppia benestante, che cerca lavoratori per la propria casa del sidro, la tenuta dove si raccolgono e lavorano le mele. Qui Homer diventerà davvero uomo, conoscerà l’amore proibito con Candy (Charlize Theron) e, alla fine, capirà davvero qual è il suo posto nel mondo, accettando il destino che aveva sempre rifiutato.

Le regole della casa del sidro: una storia di formazione dai temi scottanti

Le regole della casa del sidro, cinematographe.it

A lungo Le regole della casa del sidro è stato etichettato come “un film sull’aborto”, ma in realtà all’interno contiene molto di più. Pur trattando il tema con intelligenza e senza scadere nel politically correct, questo film pone davanti a un dramma che tutti abbiamo vissuto, la scoperta di noi stessi. Un viaggio affascinante, che può essere però anche brutale e doloroso. Proprio come succede a Homer, che parte come un ragazzo ricco d’ideali e di una pura ingenuità adolescenziale – resa benissimo dallo sguardo limpido di un ottimo Toby Maguire – e che, lavorando nella casa del sidro, vede crollare una dopo l’altra le sue certezze.

Con una narrazione poetica e sfumata, con leggerezza e delicatezza, Lasse Hallström ci fa scoprire, insieme al protagonista, tutte le ingiustizie di un mondo che è molto più crudo di quanto non immaginasse. Come le assurde regole della casa del sidro, che sembrano scritte da chi non ha mai lavorato un giorno nella sua vita, o come la passione di un sentimento sincero che sboccia con una Charlize Theron eterea e l’impossibilità di vederlo realizzato, quando il fidanzato Wally torna a casa dalla guerra, ferito e paralizzato. Un climax di scoperte e esperienze che carica fino al dramma finale, quello che farà scoprire a Homer che il mondo non è solo bianco o nero, ma pieno di grigi: quando si troverà costretto a intervenire per operare un aborto sulla giovane Rose (Erykah Badu) – abusata dal padre e pronta compiere una pericolosa operazione clandestina – capirà finalmente il punto di vista disilluso del suo padre adottivo, e capirà anche che il conoscersi a fondo comporta la possibilità di scoprire che non siamo proprio come credevamo, o come volevamo essere. Solo che, quando finalmente comprenderà cosa voleva trasmettergli Wilbur Larch, sarà troppo tardi per Homer, perché suo padre morirà nominandolo suo erede, ma senza averlo rivisto.

Solo perdendosi è possibile ritrovarsi

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Il viaggio di Homer Wells è il perfetto archetipo del figliol prodigo, che vuole staccarsi a ogni costo dall’ala paternalistica, che non si riconosce nelle aspettative del padre, che vuole trovare la sua strada da solo. La verità che ci raccontano Irving con la sua sceneggiatura, Hallström con la sua regia e la compositrice Rachel Portman con la sua colonna sonora meravigliosa, è che a volte per poter raggiungere la giusta maturità serve perdersi. Lasciarsi andare al mondo quel tanto che basta per scoprirne tutte le luci e le ombre, lasciarsi catturare dalla vita e goderne di tutto il bello e di tutto il brutto. Homer lo farà amando Candy e lasciandola andare, rimanendo prima indifferente al dramma della giovane Rose e poi aiutandola lui stesso ad abortire, amando e rinnegando il padre, con cui si scambia lettere in cui si raccontano, si sfidano, si provocano, pensando di avere tutto il tempo del mondo. Fin quando, però, il vecchio dottore muore, e Homer è costretto a imparare dolorosamente che il tempo, in realtà, non è mai abbastanza. Ed è proprio la consapevolezza che nasce dal dolore a spingerlo, infine, ad abbracciare il suo talento, e a capire che quel vecchio mentore disilluso, che a lungo ha considerato una spina nel fianco, aveva ragione e sapeva davvero cosa fosse meglio per lui.

Il dottor Wilbur Larch è la chiave di tutta la storia, in fondo, è quello che mette sia Homer sia lo spettatore davanti a una maturità che non vuol dire fare quello che si vuole a tutti i costi, ma fare un passo indietro, mettere da parte l’ego e capire che la propria visione del mondo non è l’unica possibile.  Un messaggio che arriva forte anche grazie alla spettacolare bravura di Michael Caine, che per questo ruolo ha vinto l’Oscar come miglior attore non protagonista: il suo Wilbur Larch ha una forte ambiguità morale dal punto di vista professionale, ma è capace di atti di profonda umanità con i suoi orfani, a cui legge Dickens tutte le sere e mostra un solo film, King Kong, ma interrompendolo magicamente sempre prima della fine, quasi a voler risparmiare ai ragazzi la triste conclusione della pellicola.

Buona notte principi del Maine, re della nuova Inghilterra.

Dottor Wilbur Larch (Michael Caine)

Un treno che va, un treno che torna

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Nell’inizio e nella fine del film è racchiuso tutto il senso de Le regole della casa del sidro: una stazione, un treno, un viaggio, che all’inizio è pieno di speranze e aspettative, e alla fine è carico del ricongiungimento con se stessi dopo un lungo vagare. Perché a volte bisogna tornare indietro, per poter andare avanti.

Con raffinatezza, delicatezza ed eleganza, Lasse Hallström costruisce un film di altri tempi: meno crudo del libro – per scelta precisa dell’autore John Irving – ma comunque in grado di trattare temi scottanti, senza forzare la mano col dramma o con un impatto emotivo gratuito. Per dirla con le parole del maestro Morando Morandini: “Una gran bella storia. Magari ce ne fossero molte.”

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