La casa di Jack: spiegazione e analisi psicologica del film di Lars Von Trier

La casa di Jack parte dagli eventi narrati per aprirsi a un discorso più ampio su arte e morale, rivelando la lucida e complessa Weltanschauung del suo regista.

L’ultimo capolavoro-scandalo di Lars Von TrierLa casa di Jack (The House that Jack Built), condivide il suo nome con quello di una filastrocca britannica del tardo ‘500 a struttura cumulativa, che in realtà non racconta la storia della casa di Jack, o dell’azione di Jack di costruire una casa, ma mostra invece come la casa sia indirettamente collegata ad altre cose e persone, raccontando attraverso questa via la storia di un “uomo tutto lacero e strappato“.

Allo stesso modo, La casa di Jack presenta tale struttura, in cui la dimora del titolo assume un significato simbolico, emblema del tormento interiore che porta il protagonista a ergere una costruzione composta dai corpi delle donne e uomini che ha brutalmente ucciso.
La casa, inoltre, rappresenta l’icona per eccellenza della protezione e dell’amore, dispensatrice di quel calore umano che il dolore di Jack porta a sostituire per contrasto con un inferno di ghiaccio, la stanza/congelatore in cui ripone i corpi martoriati delle sue vittime.

La casa di Jack - Cinematographe.it

Come per ogni film di Lars Von Trier, la trama de La casa di Jack diviene quindi un mero pretesto per inoltrarsi nell’esplorazione della psicologia di un uomo che è a sua volta mezzo per una riflessione più ampia su bene e male, e soprattutto su come possa collocarsi l’uomo al cospetto di un’esperienza intrisa di dolore come quella terrena, in cui i concetti stessi di moralità e giustizia perdono inesorabilmente senso.

Ma l’ultima opera del regista danese e molto più di tutto questo, riuscendo nell’intento – a dir poco ambizioso – di traghettare le emozioni dello spettatore nello stesso modo in cui il Virgilio interpretato da Bruno Ganz cerca di traghettare le riflessioni del protagonista, sostenendolo nell’impresa faticosa di reagire ed esprimere un giudizio su quanto si trova a vedere nelle (emotivamente) faticose 2 ore e mezza di durata del film.

La casa di Jack: fra narcisismo maligno e disturbo ossessivo-compulsivo (SPOILER ALERT)

la casa di jack cinematographe

La casa di Jack vede Matt Dillon nei panni di un impunito serial killer, vissuto negli anni ’70 e autore –  nel corso di 12 anni – di più di 60 omicidi, di cui la maggior parte privi di alcun movente.
Ingegnere di fatto ma architetto mancato nelle aspirazioni, il narcisista maligno del titolo ha un’ossessione per la forma, rispetto alla struttura, mosso da un istinto predatorio omicida che non si accontenta di placare un’urgenza dolorosa ma mira a raggiungere un ideale di perfezione estetica.
Per realizzare tale aberrante intento, Jack ripone ogni cadavere in una cella frigo che assolve la duplice funzione di conservare le prove di quanto commesso e di poter disporre dei corpi per agghiaccianti sessioni fotografiche, in cui mettere alla prova le sue raffinate abilità da “Mr. Sophistication“, un “nome d’arte” con cui Jack celebra il proprio delirio di onnipotenza.
Nel portare a compimento i suoi delitti, Jack soffre dapprima di un potente impulso ossessivo-compulsivo che lo porta a tornare più volte sulla scena del delitto per eliminare ogni possibile traccia del suo passaggio, rendendosi successivamente conto – non senza delusione – che la sua preoccupazione è del tutto inutile, in una realtà in cui nessuno sembra essere in grado di punirlo per ciò che fa, nemmeno davanti all’evidenza del fatto.

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Il film si apre sulle voci fuori campo di Jack e del suo Virgilio, per poi ricostruire i punti salienti della carriera omicida del protagonista in 5 “incidenti” (omicidi) principali, in una sorta di faticosa e inutile seduta psicanalitica in cui Jack confessa quanto commesso ma non riesce a cogliere gli spunti riflessivi offerti dal suo sapiente interlocutore, che tenta invano di stimolare in lui sentimenti di umana empatia e pentimento, utili a risparmiargli le fiamme dell’inferno.
La psicopatia di Jack, in effetti, non implica la possibilità di provare alcun genere di partecipazione emotiva, rappresentando gli omicidi un mezzo per liberarsi da una sofferenza persecutoria presente fin dall’infanzia ma le cui motivazioni non vengono indagate nel film.

La casa di Jack: la Weltanschauung di Lars Von Trier

La casa di Jack, come già accennato, in effetti non mira tanto ad approfondire una storia, quanto a stimolare nel pubblico la condivisione della Weltanschauung del suo regista, partendo dagli eventi narrati per aprirsi ad un discorso più ampio sull’arte, un mezzo che – quasi a volersi giustificare – Lars Von Trier considera limitato dalla morale, assolvendo la funzione di catalizzatore di quegli istinti non ammissibili dalla società civile, e pertanto sublimabili in un’opera che non dovrebbe essere sottoposta ad alcun giudizio etico per poter esprimere il suo pieno potenziale.
In questo modo, il cineasta costruisce una sorta di (very) black comedy in cui autorizza se stesso – per mezzo dell’arte cinematografica – a dare libero sfogo ad ogni sua ossessione e istinto perverso, dall’ostentata misoginia (tutte le donne uccise da Jack appaiono sorprendentemente stupide) alla totale sfiducia nella giustizia terrena rappresentata da una parte dalla totale ottusità e indifferenza delle forze dell’ordine verso i più che espliciti indizi lasciati da Jack, e dall’altra da un paradossale aiuto divino nel perseguire il male in terra (vedi la pioggia provvidenziale che segue uno degli incidenti), laddove – citando le stesse parole di Jack/Von Trier, Paradiso e Inferno sono la stessa cosa, appartenendo l’anima al primo e il corpo al secondo.

La casa di Jack: la catabasi dell’epilogo

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Il regista porta così il suo racconto didascalico verso l’unico epilogo possibile, in cui Jack, dopo aver insistentemente tentato di essere scoperto – e quindi – fermato (pur non ammettendolo esplicitamente), arriva a innalzare la propria grandiosità al livello massimo, consapevole che il liberatorio sopraggiungere della giustizia terrena per i suoi misfatti sarebbe un segno di quella presenza divina in terra che né Jack né il regista del film riescono a individuare.

Le scene finali de La casa di Jack sintetizzano e ostentano l’intera poetica del regista: Jack arriva a bordo di una volante della polizia (sottratta a un agente che ha ucciso) a sirene spiegate, lasciandola accesa e rumorosa fuori dalla stanza/congelatore in cui lo attendono le sue ultime vittime. Qui, tuttavia, perde tempo nella pianificazione del suo ultimo delitto, non trovando la prospettiva giusta per immortalarlo. È così che arriva finalmente ad aprire quella porta che non era mai riuscito a scardinare, udendo il richiamo di Virgilio che – mentre si odono le forze dell’ordine finalmente pronte ad arrestarlo – lo invita a seguirlo, accettando il destino riservato alla sua anima.

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Il terzo girone di un Inferno che non poteva che essere rappresentato con un’estetica dantesca è il luogo riservato all’anima di Jack, che – paradossalmente – non merita il livello più basso. Ma se lo spettatore fin qui ha colto il profilo del personaggio, sa che Jack non aspetta altro che toccare finalmente il fondo, per liberarsi completamente del peso insostenibile che ha afflitto la sua anima nel corso della vita.

Arrivato a un ponte spezzato, Jack – nel tentativo dichiarato di voler raggiungere una scala per mezzo della quale risalire – precipita inesorabilmente nelle fiamme eterne, che si ghiacciano istantaneamente al suo contatto, in una sorta di giustizia divina in cui all’anima dell’uomo è riservato lo stesso destino dei corpi delle sue vittime, in attesa che gli eventuali capitoli successivi della Divina Commedia di Von Trier, offrano all’uomo – e alla visione del mondo del regista – nuove possibilità di redenzione attraverso Purgatorio e Paradiso…