John Rambo, da First Blood a Last Blood: l’evoluzione del soldato di Sylvester Stallone

Il personaggio iconico interpretato da Sylvester Stallone ritorna nell'ultimo e conclusivo capitolo intitolato Rambo: Last Blood. Ripercorriamo il cammino compiuto dal soldato reduce dalla guerra del Vietnam in una delle saghe action più seguite di sempre.

A 73 anni, Sylvester Stallone si rimette in gioco e dopo aver brillato con la sua performance negli ultimi due Creed (2015- 2018), torna a rivestire coraggiosamente gli iconici panni di John Rambo in Rambo: Last Blood. Un ex berretto verde reduce dalla guerra del Vietnam che, tornato in patria, viene schernito e umiliato dai suoi compatrioti e alla fine emarginato. Un personaggio che potremmo ritenere immortale, sia come presenza fissa in una saga duratura che nel cuore degli spettatori che lo hanno sempre accolto nelle sale. È comparso per la prima volta nel romanzo Primo sangue (First Blood) dello scrittore canadese David Morrell, pubblicato nel 1972. Sylvester Stallone coglie al volo l’opportunità, nella trasposizione filmica dello stesso romanzo nel 1982, di rendere la figura di Rambo molto meno psicopatica e più umana.

Rambo: Last Blood – recensione del film con Sylvester Stallone

RamboFirst Blood (1982): una guerra che annienta lo spirito

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Un uomo al servizio di una nazione e mandato al macello. John James Rambo (Sylvester Stallone), nel 1969 all’età di 22 anni, viene mandato nel nord del Vietnam. Catturato dai soldati nemici e relegato in un campo di prigionia assieme ad altre vittime innocenti, viene più volte torturato senza riuscire a crearsi un’opportunità per scappare. La premessa è il punto di forza del primo capitolo, Rambo: First Blood di Ted Kotcheff; l’uomo torna negli Stati Uniti e capisce che i cittadini non apprezzano la sua compagnia. Un film importante che va bilanciando perfettamente il lato terrorizzante di un soldato sopravvissuto per miracolo e uno spirito lacerato che tenta disperatamente di cancellare, con un colpo di spugna, la vita da guerriero per abbracciare una nuova realtà, un mondo apparentemente migliore rispetto al teatro di morte che aveva vissuto in Vietnam.

Rambo vaga per gli Stati Uniti come un vagabondo, ha molte difficoltà a reinserirsi nella società. Non gli viene concessa la possibilità di ottenere un lavoro temporaneo, anche solo un pasto caldo. L’orrore comincia ad assumere un’altra forma, ancora più subdola e insidiosa; lo sceriffo Will Teasle (Brian Dennehy) non vede di buon occhio la presenza di un vagabondo nella città di Hope, Washington. Un inseguimento continuo caratterizza una pellicola devastante, che mette in primo piano una corsa esasperante atta a distruggere tutto ciò che di buono era rimasto intatto nel profilo caratteriale del soldato. Da vittima segnata a cane rabbioso, l’uomo diviene in tempo zero un animale in cattività da collocare dietro le sbarre.

Rambo 2 – La vendetta (1985) e Rambo III (1988): una rabbia incontrollabile definisce il soldato

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Nei due sequel, Rambo 2 – La Vendetta e Rambo III, il soldato sconta una pena ancora più dura. Si estende il periodo di imprigionamento in una mente che continua a rivivere gli orrori e lo strazio della guerra. È un soldato a cui bisogna impartire degli ordini diretti; il protagonista viene ridimensionato da un sistema gerarchico impassibile, noncurante degli effetti che subisce un uomo traumatizzato e fondamentalmente solo. Viene stabilita una collaborazione unilaterale alla quale non si può rinunciare in alcun modo e Rambo non avrà modo di liberarsi del massiccio fardello che è costretto ad alimentare di capitolo in capitolo: si tratta della sete di sangue, dell’adrenalina che scorre al massimo della velocità. Dovrebbe ripudiare la violenza, ma non può farne a meno. Si ritrova a portare a termine una missione nuovamente in Vietnam, finendo in un campo di prigionia.

Nel terzo capitolo, Rambo mette da parte qualsiasi ripensamento per abbracciare appieno la sua vera natura: è diventato una macchina da guerra senza paura. La location cambia di netto e siamo ai confini col Pakistan. Nell’intraprendere un incarico estremo contro i mujahideen, il disturbo post traumatico da stress del soldato lascia lo spazio al bisogno di battersi per liberare un’intera popolazione dalla schiavitù. Una parentesi che si rivela vincente nel successivo John Rambo del 2008, diretto dallo stesso Sylvester Stallone.

John Rambo (2008): uccidere è facile come respirare

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Stallone decide di prendere in mano il franchise e dirigere il quarto capitolo. Un ritorno in grande stile incentrato su una guerra che non appartiene a Rambo: il genocidio al confine fra la Thailandia e Birmania a opera del crudele esercito birmano. Gli echi della sofferenza, delle esecuzioni e degli stupri quotidiani non lo scalfiscono, lascia che gli amari ricordi del suo passato di combattente gli scivolino addosso. Servirà la comparsa di un gruppo di missionari americani, in procinto di fornire medicinali e conforto nei villaggi attaccati dall’esercito, a cambiare il corso degli avvenimenti. Il periodo di isolamento si conclude nel momento in cui la dedizione alla causa diventa più forte del cinismo di fondo che ora caratterizza il personaggio di Rambo.

Deve pur credere in qualcuno. Deve ancora importarle di qualcosa.”. Queste le parole pronunciate da Sarah Miller (Julie Benz), una dottoressa in viaggio con i missionari protestanti, che tenta di persuadere un uomo così silenzioso e sfuggente. Raccapriccio e indignazione sono alla base del film, si trasformano in una scintilla che anima il cuore di un guerriero ancora in servizio. Il Rambo versione 2008 interpretato (e anche diretto) da Stallone assume una stazza e una statura di un autentico Golem della guerra. Ė inequivocabilmente invecchiato ma dotato di mirabile fulmineità. Non si pone limiti, tanto da orchestrare un massacro finale, ai danni dei pirati birmani, al limite del brutale. Gli anni sono passati per lui, ma la sostanza rimane intatta: un desiderio di uccidere emerge e l’incubo nell’inconscio diventa a occhi aperti.

Rambo – Last Blood (2019): un nucleo familiare inedito

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Si ritorna a casa. John Rambo decide di tornare alla fattoria di suo padre negli Stati Uniti. Un soldato, in cerca di una riabilitazione pacifica nella società americana, che si sente realizzato. Da tempo si è lasciato la guerra alle spalle, tentando di trattenersi giorno dopo giorno. L’equilibrio è stato stabilito da una domestica, Maria (Adriana Barraza), e dalla nipote di quest’ultima, Gabrielle (Yvette Monreal). Un ranch da portare avanti, cavalli da domare e stalle da pulire; l’ultimo capitolo concentra gli sforzi sulla ridefinizione di un profilo prima maledetto, ora rinato. La guardia però bisogna sempre tenerla alta. Per questo ha scavato dei tunnel sotto la sua proprietà, tenendo da parte un arsenale intero di armi da taglio e da fuoco per ogni sfortunata evenienza.

L’innocenza perduta la ritrova in Gabrielle, una ragazza concentrata sugli studi ma determinata a ricongiungersi con un padre che l’ha abbandonata. Per tenerla al sicuro, Rambo rifiuta la richiesta di Gabrielle di partire ai confini con il Messico per raggiungerlo, ma le conseguenze saranno fatali. Rambo – Last Blood sceglie di puntare i riflettori su un lato paterno di Rambo mai visto nella saga. Un nucleo familiare da proteggere a ogni costo, che rappresenta una vera rinascita interiore riservata a un uomo che ha perso tutto e non è più nelle condizioni di combattere. Questa componente è essenziale nel quinto capitolo per alimentare nuovamente il sentimento di odio e frustrazione insito in lui, non appena la ragazza verrà sfruttata e coinvolta in un losco giro d’affari, spostando l’attenzione sul commercio sessuale.

Rambo capisce che al mondo il bene non esiste e che non rimane altro da fare che infliggere dolore. Un dolore che muta, si adatta alla sua vecchiaia. La guerra questa volta è personale, non più contro una società che lo ha dimenticato ma contro la criminalità messicana che tenta di distruggere l’unico barlume di speranza che lo rendeva vivo. Nessun sottotesto politico all’orizzonte, solo un processo di rielaborazione di un dolore più rumoroso del grido della giovane ragazza rapita. L’ultimo sangue del titolo è anche l’ultima lacrima che scende lungo il volto di un guerriero stanco, devastato, pronto a mettersi in gioco ancora una volta per porre fine alle sue sofferenze, questa volta in maniera definitiva.