Jean-Luc Godard: 10 film da vedere (o recuperare) assolutamente!

Dieci titoli per conoscere quel genio di Jean-Luc Godard!

Jean-Luc Godard ha presto trasceso i ristretti confini dello statuto di “regista” ma anche di “autore”, diventando un punto cardine della Storia del Cinema, innovando semioticamente il mezzo con film seminali.

La sua opera è rivoluzionaria e solo apparentemente informale, perché dagli anni Sessanta ha contribuito con la Nouvelle Vague a cambiare la grammatica della Settima Arte: rompe tabù, infrange la quarta parete, evolve la sua filosofia visiva fino agli anni Novanta partendo da trame (fintamente e intenzionalmente) convenzionali per giungere ad un approdo che ha le sembianze di un collage poetico intriso di citazioni, riferimenti, sinestesie che si muovono tra letteratura, musica, poesia, pittura.

Jean-Luc Godard film cinematographe.it

Radicale e provocatorio, il suo corpus filmico è difficilmente racchiudibile in un pugno di titoli: ma se proprio si vuole, la sua carriera si può distinguere per comodità di lettura di una filmografia sterminata in tre fasi.

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1. Fino All’Ultimo Respiro (1960)

E percorrendo una strada ideale nei suoi dieci migliori titoli, non si può iniziare dal suo folgorante esordio, Fino All’Ultimo Respiro, del 1960: un capolavoro assoluto, che con la sua ribellione anarchica e liberale ha letteralmente e per sempre sconvolto e ridisegnato l’idea stessa di cinema e della sua fruizione. Godard rimodella un soggetto di Francois Truffaut per il film che sarà ufficialmente il manifesto della Nouvelle Vague, salutato fin dalla sua uscita come un’opera di rottura.

Michael ruba un’automobile e uccide un poliziotto che lo insegue, arriva a Parigi e ritrova Patricia, una studentessa americana di cui è innamorato. Vorrebbero condividere una vita spericolata, ma quando devono fuggire in Italia la ragazza decide di non seguirlo e lo denuncia alla polizia.

Nell’opera di esordio, Godard costruisce un complesso e affascinante gioco sull’esigenza di una rottura formale: ma non è una semplice distruzione, perché dopo aver introiettato il linguaggio cinematografico classico, Godard restituisce una nuovissima modalità espressiva basata prima di tutto sullo svelamento della finzione scrollando lo spettatore (allora) inconsapevole dalla sua posizione acriticamente passiva.

E allora ecco una vera e propria sarabanda di citazioni, ammiccamenti, contraddizioni, fratture, mentre si mutua l’intreccio del thriller poliziesco intrecciando la frammentarietà del discorso con una sorta di visione “negata”, con la macchina da presa che segue distratta e libera il (dis)ordinato fluire del pensiero e del corpo in scena.

2. Il disprezzo (1963) di Jean-Luc Godard è uno dei film da vedere del regista francese

Paul è uno scrittore che vive a Roma con sua moglie Camille. Quando il produttore americano Jerry Prokosch gli chiede di riscrivere una sceneggiatura su un film tratto dall’Odissea, con la regia di Fritz Lang, lui accetta che questi, attratto da Camille, rimangano soli. Nasce così il disprezzo della moglie verso il marito.

Il cinema, diceva André Bazin, sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accorda con i nostri desideri. “Le Mépris” è la storia di questo mondo.” Il sesto lungometraggio di Jean Luc Godard, Il Disprezzo del 1963, ha alle spalle una storia tormentata nella sua distribuzione italiana: il film è stato martorizzato, incompreso, disprezzato. È un film sull’immagine e sul suo senso, sulla verità e sul mito della società capitalistica, e in Italia uscì con una versione rabberciata, senza i titoli di testa e decurtato dai suoi 105 minuti iniziali per arrivare a soli 84, perdendo tutto il suo senso logico iniziale.

Lo stesso regista ha rinnegato questa versione voluta dal produttore Carlo Ponti (che all’epoca, guarda caso, usciva dallo scandalo dell’accusa di bigamia per aver sposato la Loren in Messico mentre in Italia il divorzio ancora non era legge), dove manca l’incipit letti da Godard con voce fuori campo, che riprende le parole di Bazin. Il disprezzo è un film sul fallimento: collettivo, privato e politico, culturale.

È un film di parole ed emotività, di psicologia: ed è un film sul classico che è preservato da un cinema senza neanche comprenderlo, perché il contemporaneo è sciatto, e l’istinto alla sovversione è ridimensionato. Un’opera angolare che si muove nei meandri della prassi narrativa dell’epoca -con la crisi della famiglia borghese, epicentro epico e quotidiano insieme dell’arte del Novecento- per sottolinearne l’artificiosità, la struttura sistemica, con un discorso che è narrativo e metaletterario insieme.

3. Bande à Part (1964)

bande à part
Anna Karina in una scena del capolavoro di Jean-Luc Godard

Se in Fino All’Ultimo Respiro si rivelavano trucchi, regole e convenzioni (e convinzioni), mettendo sotto gli occhi di tutti il dietro le quinte del cinema, smontando e rimontando immagini, suoni, parole, aprendo voragini di senso nelle quali sprofondare; in Bande à Part, del 1964, Godard mette a frutto questa consapevolezza acquisita. La storia è più che semplice: due amici hanno alle spalle una rapina maldestra, in mezzo a loro una ragazza corteggiata a turno.

Ma il film è, ieri come oggi, pronto a colpire e distruggere l’immaginario con dirompente semplicità, vista la naturalezza con cui il regista affronta la narrazione trattandola solo come canovaccio, e niente altro. I rapporti interpersonali hanno solo bisogno di un’impalcatura scarnificata (questa è la trama per Godard) perché si descrivono da soli, nell’atto stesso di esistere.
Dopo dieci minuti dall’inizio del film, è lo stesso Godard a parlare: “Per lo spettatore che entra in sala solo adesso, tutto ciò che si può dire sono poche parole a caso: tre settimane fa, parecchi soldi, un corso di inglese, una casa vicino al fiume, una ragazza romantica”. Gioca chiaramente a decostruire il letterario che è parte consistente di questa sua prima fase, da Fino All’Ultimo Respiro fino a Due O Tre Cose che So Di Lei, propenso alla scarnificazione dell’iconografia della società consumistica e proiettato -per ora- in una dimensione in cui è il reale a dover trovare conferme nel cinema.

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4. Due o Tre Cose Che So di Lei (1967) tra i film di Jean-Luc Godard da vedere (o recuperare) assolutamente!

Due o Tre Cose Che So di Lei: dove “lei” è Parigi, ripresa durante i lavori di ristrutturazione che la renderanno più rispondente alle esigenze della società moderna.

Tra le scene, la storia di una donna che si prostituisce, pur essendo madre e moglie, così da poter rispondere ai capricci della società dei consumi. Il film è un insieme plastico, dinamico, vibrante, con alla base un processo filmico palpitante, con il suo autore che glorifica la panoramica circolare (cioè uno specifico movimento di macchina) elevandola a forma espressiva suprema, metafora di un abbraccio visivo quanto implacabile a uomini e cose. Per ripartire da zero.

5. Lotte in Italia (1970)

Nel 1968 Godard fonda il Gruppo Dziga Vertov, per un cinema collettivo rifiutando il ruolo di autore come ideologia autoritaria e gerarchica: è l’inizio di una seconda fase ideale. E nel 1970 con Jean-Pierre Gorin dirige Lotte In Italia, nel quale il regista mostra a Paola Taviani, troppo legata all’ideologia della classe borghese, la giusta via.

A metà strada tra fiction e documentario, il film è una vera e propria lezione di comunismo per trasformare le idee astratte in azione e operare una rivoluzione vera e significativa all’interno delle proprie coscienze, evitando di semplificare per motti di partito.

6. Vento dell’Est (1970) è uno dei film di Jean-Luc Godard da vedere

Sempre nello stesso anno, si unisce a Godard e Gorin anche Gerard Martin per Vento Dell’Est. Dopo il ’68 e il Maggio francese, ovviamente è tutto cambiato e il cinema deve diventare militante: con il suo ventitreesimo lungometraggio, Godard approda alla negazione del cinema e dell’idea autoriale.

Una riflessione che si piega ad un cinema più umile e propulsore di processi rivoluzionari. Siamo quindi in un’opera di autoanalisi e autocritica, per rileggere e prendere le distanze dalla produzione pre-sessantottina che, agli occhi del suo creatore, sembra sempre più compromessa dalle leggi del mercato e del profitto.

7. Numèro Deux (1975)

Numèro Deux cinematographe.it

Una produzione così magmatica, ribollente, viva, è per sua definizione in continua evoluzione: arriviamo allora ad un terzo periodo, iniziato idealmente nel 1975, conseguente all’approdo alle tecnologie elettroniche, improntato ad una nuova e intensa sperimentazione. Con Anne-Marie Mieville firma allora in quell’anno Numèro Deux, film non-film, operazione complessa e impervia che ancora oggi pone delle sfide non usuali all’analisi critica. Sul cinema e quindi, inevitabilmente, ontologicamente, sulle immagini.

Un campo più un controcampo sovrapposto non sono due tecniche, ma una nuova immagine, terza, diversa sia dalla prima che dalla seconda. È il momento in cui, dopo l’esperienza con Dziga Vertov, Godard approda alla tv. I due registi definiscono Numèro Deux come il remake di Fino All’Ultimo Respiro; perché come quella, quest’opera scardina il concetto stesso di film, eliminando addirittura la pellicola a favore del nastro magnetico.

8. Prenom, Carmen (1983)

Prenom, Carmen

Carmen vuole sfruttare lo zio regista per inscenare una ripresa e rapire qualcuno per denaro. Durante la rapina, si innamora di un poliziotto: è questa la trama di Prenom, Carmen, del 1983.
Ossessione linguistica, distruzione e destrutturazione narrativa e conseguentemente grammaticale, saturazione e ricomposizione del mezzo filmico: Prenom, Carmen è, in piena terza fase artistica, un ulteriore approdo del cinema di Godard, nuovo e ulteriore punto di rottura ancora più estremo e radicale.

I personaggi sono ombre di un cinema passato: la Carmen di Bizet è quindi un punto di partenza per disossarne la struttura e raccontarne il nucleo segreto e semantico. Insieme agli amanti che si rincorrono come in Fino All’Ultimo Respiro e agli strambi gangster come in Bande A Part. La percezione che Godard ha del mondo e di sé, come cineasta e sociologo, e intellettuale, è un labirinto introflesso che si smuove tra le macerie di un’opera filmica immensa.
Ha rinunciato al cinema, almeno a quello come tradizionalmente inteso, e si rifugia nelle immagini di Prenom, Carmen he sono astratte e astruse, e che hanno senso solo se accompagnate dal sonoro. Immagine che si fa suono, suono che si fa immagine. L’inquadratura è fissa e anonima, è la parte sonora che sottolinea i personaggi e le loro emozioni. Come un flusso di coscienza interrotto.

9. Je Vous Salue, Marie (1985)

Je Vous Salue Marie

È del 1985 Je Vous Salue, Marie: Maria è una giovane benzinaia fidanzata con Giuseppe, tassista. Un giorno la ragazza riceve la visita di Gabriele, insieme ad una bambina, che le dice che presto diventerà madre.

Se Godard ha fin dall’inizio raccontato storie di un uomo e una donna, quella di Maria e Giuseppe è LA storia di due persone unite da un volere altro, costretti all’amore, senza capire. Due persone, due corpi di carne che non è carne: Maria è un corpo che non deve essere corpo, e si dimena nel bruciore della carne. Je Vous Salue, Marie, stigmatizzato dalla Chiesa alla sua uscita, è perfettamente in linea con la ricerca estetica di un’immagine pura, in un insieme di immagini che si fanno universali con il contrappunto di altre visioni avulse.

Raggi che si riflettono nell’acqua dopo la pioggia, la luna, il sole, le albe, i tramonti. La luce. Elementi slegati ma armonizzati, che intervengono nella narrazione di Godard al pari di epifanie, in un capolavoro luminoso e perfetto denso si simboli e allegorie. E contemporaneamente, un passo sostanziale nella riflessione sul linguaggio cinematografico e sul potere dell’immagine.

10. La Livre D’Image (2018)

La Livre D’Image

L‘ultimo lungometraggio di Jean Luc Godard è del 2018: La Livre D’Image presentato a Cannes in concorso a quattro anni di distanza dia Adieu Au Langage. Ed è ovviamente una ultima riflessione sul cinema/feticcio, sulla fede incrollabile nella potenza delle immagini, cercando nell’immagine stessa la fine naturale, ragionando in maniera profondamente autoironica sul proprio cinema, sui cliché, sulla routine.

È un film composto da più di cento immagini in movimento, con un infinito ritorno su sé stessi. L’immagine appare e viene narrata come un potere costituito, ed ha al suo interno il suo esatto contrario: nella rappresentazione dell’immagine esiste, ma non ha niente a che vedere con la rappresentazione in quanto tale.

La Livre D’Image è un film particolarmente denso, materico, nonostante il suo slancio verso una perfezione che dovrebbe essere altra: composto interamente da found footage, questo testamento spirituale è uno scontro di Godard con l’immagine, che è cinema quando è in movimento. Ma qual è il suo fine, il suo termine naturale? Una ricerca romantica perché inevitabilmente destinata al fallimento, insieme agli stacchi improvvisi sul nero che interrompono bruscamente le frasi e i segmenti narrativi. Incompiuti. Irrealizzati. Proprio come la prima storia, in Fino All’Ultimo Respiro.
E proprio come nella vita reale: dove proprio lui, Godard, ha deciso con un supremo atto volontario, di interrompere dove e quando voleva lui.

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