Jean-Luc Godard, l’integralista insopportabile: elogio dell’antipatia d’artista 

Dal suo cinema al suicidio assistito, ritratto ragionato di un artista-intellettuale intransigente e della sua salvifica ossessione per la coerenza.

Jean-Luc Godard non è stato soltanto uno dei grandi esponenti della Nouvelle Vague, ma ha anche incarnato e difeso fino allo stremo una concezione integralista del ruolo dell’artista-intellettuale per cui la prassi creativa non può essere scissa dalla consapevolezza teorica della stessa. Oggi più che mai servirebbe tornare a quel paradigma radicale.

Addio a Jean-Luc Godard: la scelta del suicidio assistito come atto di coerenza

Jean-Luc Godard alla Berlinale 1981.
Foto: Erika Rabau © Stiftung Deutsche Kinemathek / Internationale Filmfestspiele Berlin

Albert Camus sosteneva che la questione del suicidio, se legittimo o meno, è il dilemma filosofico per eccellenza. Vale la pena vivere? È la domanda delle domande. Ha cercato di rispondervi, per tutta la vita, anche il suo connazionale Jean-Luc Godard, morto martedì 13 settembre 2022, a tre mesi dal suo novantaduesimo compleanno: ha scelto il suicidio assistito, e non perché fosse malato

Attraverso la sua decisione di morire in modo programmato, Godard ha portato alle estreme conseguenze la volontà di controllo che, nel suo lavoro – il cinema –, ha esercitato sulla materia ideologica e sulle sue conseguenti forme estetiche, una volontà di controllo che è in primo luogo espressione della consapevolezza esistenzialista che la sua condizione di mortale chiama l’uomo alla presa in carico della propria soggettività, soggettività che si rivela concretamente solo attraverso la responsabilità delle proprie azioni: ciò che faccio è, in fondo, anche ciò che sono, la declinazione concreta del mio essere gettato nel mondo, la manifestazione oggettiva dei moti che mi agitano dentro, dell’etica che mi sorregge e guida.

La rivoluzione di Godard come sistema di pensiero che tutto regola e controlla

La rivoluzione, prima che possa farsi agito esteriore, è per lui uno slancio interiore, ma affinché possa sovvertire e trasformare le cose deve stabilire un’identità tra idea e (manu)fatto, tra credenza e comportamento, e onorare quell’identità in modo esasperato ed esasperante, perché è la coerenza rispetto ad un’etica personale che distingue l’uomo soggetto della storia – e della Storia – dall’uomo da essa attraversato, calpestato, offeso. Dall’uomo colpevolmente irresponsabile di quanto subisce perché non fa. 

In nome di questo principio, in nome del primato della coerenza nella morale umana, Godard ha vissuto e operato, spesso rendendo impossibile agli altri stargli accanto. Nell’omaggio di Michel Hazanavicius al venerato maestro, fischiatissimo a Cannes nel 2017 per lesa maestà, il regista viene rappresentato come in effetti era, un bisbetico insopportabile: nel 1967, anno in cui è ambientato il film, a seguito del fallimento del suo grande amore per Anna Karina, è sposato con Anne Wiazemsky, la nipote per parte materna dello scrittore Mauriac, nonché figlia di un aristocratico russo.

Il rapporto con lei frana poco a poco per la difficoltà di Godard ad accettare compromessi. Quando legge quattro critiche negative al suo film-rivoluzionario La cinese, entra in crisi e lo fa pesare a tutti: è già Godard, ha un nome, ma basta un niente a farlo dubitare del proprio valore. Le sue eccentricità ideologiche sono infinite: alla moglie proibisce di ringraziare i poliziotti perché, anche se l’hanno trattata in modo gentile, sono pur sempre poliziotti e ai poliziotti, strumenti del potere autoritario, non bisogna mai strizzare l’occhio.

Godard, effettivamente, non ha mai strizzato l’occhio a nessuno, amico o nemico, perché l’occhio l’ha sempre tenuto – e al suo pubblico richiesto – ben aperto. Non ha mai tradito il principio della rivoluzione interiore, un ordine che si pianta alla radice della mente e fa pulizia di tutto ciò che rappresenta una contraddizione, o meglio una sconfessione, di ciò a cui si crede. A Isabelle Huppert che, nel 1982, nel suo Passion, interpretava una giovane operaia balbuziente ispirata alla figura di Simone Weil, impose di andare a lavorare in fabbrica per davvero e di mettere per iscritto i suoi pensieri in modo da poterli riutilizzare nella recitazione: da sé e dai suoi attori, talvolta persino sadicamente, esigeva quella stessa integrità, quella stessa riconciliazione tra pensato e agito, tra vissuto e interpretato. È ora possibile ritagliare la figura di Godard nella storia del cinema e del pensiero, contornarla nella sua nobiltà e nel rilievo che negli anni ha assunto, proprio perché, in fondo, Godard non è stato solo un regista, ma soprattutto e risolutamente un cineasta

Jean-Luc Godard ha sempre dato un sostegno teorico ai suoi film, e in questa serrata coerenza tra prassi artistica e ideologia si rivela la sua grandezza

Vi è infatti una differenza di sostanza tra i due termini: in maniera analoga a molti altri celebri colleghi esponenti della Nouvelle Vague, Godard si è formato come critico e, solo in un secondo tempo, dalla macchina da scrivere su cui batteva i suoi essais è passato alla macchina da presa. I suoi film rispondevano a un programma di sottrazione alle regole dell’industria – alle leggi del padrone, per così dire – e si sottraevano alle regole perché quelle regole il loro autore le conosceva, le aveva studiate, analizzate, scomposte, elaborate in sede giornalistico-saggistica. I suoi film rompono con il canone perché quel canone il loro autore lo aveva approfondito, lo dominava cognitivamente.

Al ruolo di artista totale – che dell’arte fa un laboratorio in cui riproduce la realtà, nella sua complessità di linguaggi, verbali e no – Godard ha sempre sovrapposto, forse persino anteposto, il ruolo di intellettuale, che invece fa dell’arte un laboratorio in cui prova a comprendere la realtà e la sottopone a critica, la smonta, la tritura, ne richiama gli attori appunto all’assunzione di responsabilità. Nella nostra contemporaneità piena di cancellature, riaggiustamenti ortopedici e mistificazioni di ciò che non si vuole affrontare e magari comprendere alle radici – le disuguaglianze, i moventi pulsionali dell’agire umano, persino la Storia e le sue violenze – l’intellettuale monda le sue parole, meno le sue azioni, facendo appena attenzione a non scivolare nella scorrettezza sbagliata, a non offendere la suscettibilità maggiormente tutelata, a mantenersi nell’ordine della rispettabilità più social che sociale.

A Godard invece importava soprattutto far tornare i conti di fronte a sé stesso, dimostrare che l’artista, per essere tale, non può ricusare la consapevolezza teorica, programmatica di quanto propone, lo scrutinio, la messa in discussione costante, il giudizio di conformità dell’opera all’ideale, in adesione a un integralismo radicale che ha orrore dell’irresponsabilità e dell’incoerenza. Godard è uno dei pochissimi che ha creduto che chi predica deve anche coerentemente razzolare, bene o male che sia. Oggi avremmo bisogno di tornare a quel paradigma di intellettuale intransigente: qualcuno con il coraggio di essere tanto antipatico quanto disgustato da chi, a differenza sua, pretende di separare la pratica dell’arte dalla sua teoria. E viceversa. 

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