Il potere del cane: spiegazione del film e del finale

Spoiler alert! Spiegazione del film tratto dal western di Thomas Savage, adattato per lo schermo da Jane Campion e disponibile alla visione su Netflix.

Il potere del cane è l’enigmatico titolo scelto dallo scrittore Thomas Savage per il suo romanzo western pubblicato nel 1967. Si riferisce non solo alla forma della collina rocciosa che fa da sfondo alle vicende narrate, forma che sembra ricordare il profilo di un cane in corsa, ma anche al versetto 22:20, contenuto nel libro dei Salmi:  “Salva l’anima dalla spada, salva il cuore dal potere del cane”. 

Perché il film si intitola Il potere del cane? Il significato dietro al film di del titolo

il potere del cane cinematographe.it

Benedict Cumberbatch interpreta Phil Burbank

Il cane, che nel nostro immaginario è associato ai valori positivi della lealtà e della tenerezza, nel mondo antico – pensiamo in primis all’universo omerico, in cui la formula “faccia di cane” è un insulto che vale per “spudorato” – non godeva della stessa fama: nello stesso passo da cui proviene la citazione biblica di cui Savage si avvale per il titolo, i cani ritornano in un’immagine che li vede riuniti in un branco, simbolo dell’assedio delle pulsioni caotiche, anticipatrici del tradimento e della corruzione che condurranno Gesù alla crocifissione. 

Il potere del cane nel film di Jane Campion, che riadatta per lo schermo il romanzo, rappresenta dunque l’inconscio: il luogo sommerso del rimosso, in cui aggressività ed eros, istinti che attingono alla stessa fonte, assoggettano l’individuo, lo impalano a comportamenti ripetitivi di cui ignora i moventi, rendendolo schiavo di sé stesso, insieme carnefice e vittima, ostaggio di un groviglio pulsionale di impossibile risoluzione.
È quanto accade a Phil, uno dei due fratelli Burbank, il più bello e filiforme dei due: dotato di un’intelligenza acuta e di un umorismo sardonico, è una mente brillante arresa a un imperativo cinico e machista che lo spinge ad assumere atteggiamenti di derisione e plateale sadismo nei confronti di tutti coloro che non vi si conformano perché determinati ad assumere un’etica differente, fondata sulla gentilezza e sulle ‘leggi’ della civiltà. 

Il potere del cane: il sogno impossibile di Phil

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Benedict Cumberbatch in una scena del film

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Siamo, infatti, in Montana, nel 1924. Nelle pianure del vecchio West sta irrompendo la modernità: lo stile di vita, fino a quel momento improntato a una scarna rozzezza, si sta raffinando. Nelle locande non è raro trovare tavole apparecchiate con gusto, rivestite di tovaglie ricamate e adornate da vasi contenenti fiori di stoffa o cartapesta; altrettanto frequenti sono le incursioni di comitive chiassose che sembrano avere fame non solo di cibo, ma anche di musica, canti, divertimento in genere. 

Ciò indispone Phil, che vorrebbe che il mondo restasse immutato, congelato all’epoca del suo primo ‘trauma’: l’emersione del desiderio che spiazza e perturba, l’incontro con l’eros destabilizzante. Per lui questo momento di passaggio, l’attraversamento che dall’infanzia porta all’adolescenza e poi all’età adulta, è incarnato da Bronco Henry, colui che gli ha insegnato a diventare uomo – e “uomo” qui significa soprattutto identificato con una virilità sbandierata, con le insegne falliche del suprematista – e a sopprimere gli aspetti più fragili del carattere, un mentore amato e perduto, quindi mitizzato. 

L’alterità destabilizzante del femminile

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Kirsten Dunst interpreta Rose Gordon; Jesse Plemons George Burbank. La coppia è sposata anche nella vita.

Ostinato a non elaborare il lutto, chiuso nel rifiuto della perdita di quello che nella sua memoria intende far sopravvivere come un Eden irripetibile, Phil si sente minacciato dal cambiamento: dorme ancora nella sua cameretta da bambino, in un letto singolo, accanto al fratello George, diverso da lui nell’aspetto – è pingue, molto meno attraente – e nel temperamento, mite e delicato. 

Quando quest’ultimo decide di interrompere la lunga solitudine sposando una vedova, Rose Gordon, Phil accentua i suoi tratti persecutori e attua un comportamento vessatorio nei confronti della cognata, fino a minarne l’equilibrio psichico e a spingerla all’alcolismo.
Rose Gordon rappresenta l’alterità per eccellenza: quella femminile. La sua presenza, nella casa che i due fratelli hanno condiviso prima con i genitori e in cui poi hanno vissuto soli, è potenzialmente sovversiva perché impone un confronto con il confine (e, parimenti, con la sua assenza), con la separazione dal grembo, con la necessità di abbandonare l’infanzia, di accettare la fine di una perfezione immaginata, l’estinzione di un fantasma mortificante di dipendenza dal nido e dalle sue differenti emanazioni claustrofile.
In termini junghiani, si potrebbe dire che Phil teme Rose anche perché in lei vede incarnata la sua anima, la parte femminile inconscia che alberga dentro di sé, proprio quella parte che non vorrebbe ascoltare, ma eliminare alla radice. 

Rose assume il ruolo di vittima, identificandosi con il marito morto suicida

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Plemons e Dunst in una scena del film.

Rose, a seguito delle manipolazioni narcisistiche di Phil, uomo che detesta e da cui è spaventata, sembra identificarsi con il ruolo della vittima, lo stesso a cui ha inconsciamente destinato il marito morto suicida, un uomo che per tutta la vita è stato dipendente dall’alcol e di cui comincia a replicare il comportamento.
Peter, il figlio della donna, un ragazzo apparentemente sensibile, ma in verità determinato a salvare la madre e sé stesso dalla violenza del ‘mostro’, intuisce la compressione che opprime Phil, la sua omosessualità inconfessabile, nonché il suo infantilismo, e inizia, così, a manipolarlo sottilmente.
Phil vede nel ragazzo più giovane, dapprima sbeffeggiato e poi accolto, l’occasione di replicare, a ruoli ribaltati, lo schema che regolava la sua passione amorosa originaria, quella per Bronco Henry. Nel farsi mentore di Peter, Phil scopre il fianco e permette al ragazzino di entrare in uno spazio d’intimità che aveva fino a quel momento bordato.
Lì s’insinua Peter: quando la madre si sbarazza delle pelli del cognato, vendendole agli Indiani, Peter lo risarcisce con delle pelli di bovini uccisi dall’antrace. L’infezione che ha causato la morte degli animali penetra, attraverso l’epidermide, nell’organismo di Phil e silenziosamente lo uccide. 

Cosa succede nel finale de Il Potere del Cane? La vendetta di Peter, l’unico vero ‘sadico’ della storia

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Il personaggio di Peter Gordon è interpretato da Kodi Smit-McPhee, un giovane attore australiano.

Il finale del film getta su Peter un’ombra, del resto anticipata dalla macabra scena del coniglio squartato per ragioni sperimentali: il personaggio che, più degli altri, sembrava soffrire della mascolinità tossica del suo ambiente ha, in fondo, soltanto barattato la brutalità manifesta con una forma di sadismo più sottile, per così dire intellettuale.

La conservazione della corda che Phil aveva realizzato per lui è probabilmente un rimando alla morte del padre, un suicidio per impiccagione, e sembra suggerire a chi guarda, a cui del resto spetta il lavoro interpretativo maggiore, il desiderio inconscio del ragazzo di eliminare tutti gli uomini che ‘ronzano’ attorno alla madre per ritornare all’idillio a due sperimentato nel loro rapporto, per un lungo tempo rimasto senza mediazione paterna.
La figura di George, un uomo bonario e affettuoso, sinceramente innamorato della moglie, è l’ultima a comparire nel campo visivo di Peter: sul bacio tra i due coniugi, ‘spiato’ dal figlio di Rose, bacio con cui si chiude il film, sembra proiettarsi l’opacità di uno sguardo torvo, uno sguardo d’odio. 

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