Le tematiche dei fratelli D’Innocenzo: da La terra dell’abbastanza a Favolacce

Damiano e Fabio D'Innocenzo sono alla loro seconda opera con Favolacce, ma sembrano avere ben chiaro il percorso che vorrà prendere il loro cinema.

Era il 2018 e due ragazzi dei quartieracci di Roma Sud raccontavano l’ascesa nella criminalità di altri due quasi coetanei. Un racconto di finzione, una frazione di cittadina, che alcuni possono anche sentire tanto lontana, ma che ogni generazione attraversa come se gli fosse vicina. E non perché si è tutti destinati a un futuro infame, né perché è soltanto nel perseguimento di una possibilità criminale che si può cercare un riscatto che la vita non ha mai messo davanti. È l’incapacità di sfuggire ai propri padri che influenza le sorti dei protagonisti de La terra dell’abbastanza, opera prima di Damiano e Fabio D’Innocenzo, che nell’aver perseguito con costanza, insistenza e un briciolo di arroganza la volontà di diventare registi e sceneggiatori, si sono ritrovati a presentare il loro lungometraggio di debutto nella sezione Panorama del Festival di Berlino.

Evento festivaliero a cui i fratelli D’Innocenzo tornano due anni dopo, non solo con un lavoro che amplifica ciò che già La terra dell’abbastanza aveva sondato, ma apre all’universale un intero modo di concepire il cinema e, ancor più, il farlo parlare direttamente al pubblico. Se, dunque, con Favolacce i giovani registi vincono l’Orso d’Argento per la miglior sceneggiatura a Berlino, è a un bacino assai più ampio che gli artisti vanno espandendosi, nella però interessante e quasi subconscia volontà di tirare un sottile filo rosso tra ciò che hanno cominciato e ciò che stanno portando avanti, in un’unione tematica quasi impercettibile, ma affascinante da poter analizzare.

Le tematiche salienti dei Fratelli D’Innocenzo – Come spezzare con la società dell’imbruttimento

La terra dell'abbastanza, cinematographe

Se, infatti, ne La terra dell’abbastanza l’aver alimentato il desiderio di un padre di far integrare il proprio figlio all’interno di un circuito malavitoso costringe il ragazzo all’accondiscendenza estrema fino alla sua tragica sorte, con Favolacce i D’Innocenzo sembrano reiterare quella loro avversione verso genitori, tutori, autorità vicine e familiari, in una demarcazione ancora più tirata ed evidente tra il mondo dei cosiddetti adulti e quello, nel caso specifico, di una comunità di bambini. Scontro silente, imperscrutabile, ma pronto ad agire con l’irruenza di un colpo di pistola o di un veleno letale, quello che divide genitori e figli nei film di Damiano e Fabio D’Innocenzo è il marciume in cui i grandi sono cresciuti e in cui sono andati irrimediabilmente a insozzarsi, così inseriti in una trasformazione sociale e politica della nostra epoca che i nati di nuova generazione non possono accettare di dover attraversare.

Che siano adolescenti o semplicemente bambini, l’incarnazione del nuovo che cerca di pulirsi dei peccati edonistici e morali dei loro predecessori è spinta vitale nella filmografia al momento breve, ma già ben delineata dei cineasti romani, che dell’imbruttimento subito dal Paese di appartenenza hanno voluto fare il materiale plasmabile per le loro pellicole, facendo in modo che si stabilisse quel clima ideale alla ribellione di una leva di nuovi arrivati, che non hanno la minima intenzione di assecondare i propri antesignani. Un taglio netto, la necessità di rompere, spezzare, sospendere ogni collegamento con un passato che è ormai soltanto lo spettro di se stesso, ancorato continuamente a quel malato perseguimento del nulla, del vuoto, dell’apparenza, quella con cui sono cresciuti i padri, ma attraverso i quali i figli riescono a vedere oltre, temendone perciò la vacuità.

Dal contenuto alla produzione, dalla vita al cinemafavolacce, cinematographe

Nell’associarsi, dunque, a tipologie di protagonisti improntati sul bisogno di staccarsi da quel marcio che ha logorato silenziosamente gli esseri viventi, malati di un morbo che è stato disinfettato per mostrarsi lindo e pulito, ma che al di sotto riserva una melma informe e febbricitante di ipocrisia, Fabio e Damiano D’Innocenzo rinfacciano i mali della società non solamente agli esseri umani, ma al cinema, a un’industria viziata a cui non hanno accettato di omologarsi, sulla medesima linea dei protagonisti delle loro opere. Emancipandosi da un assetto tradizionale del dramma, con Favolacce i registi caricano la storia di un grottesco che tende all’assurdo perché impostato su una verità che siamo troppo imbarazzati per ammettere; quell’animo ammaccato, che nel cinema dei due fratelli fuoriesce, va fondendo contenuto e modalità produttive rendendo i D’Innocenzo voce non solamente di una generazione che vuole depurarsi dallo schifo che le è stato promesso, ma di un’arte come quella cinematografica nostrana che vuole dimostrare di non dover seguire obbligatoriamente i suoi “genitori”.

Controvertendo al desiderio inconscio sull’uccisione dei padri, La terra dell’abbastanza e Favolacce interrompono una catena di disgrazie travestite da opportunità da cui i giovani preferiscono disintossicarsi, non avendo paura del rischio dello strappo definitivo, scegliendo di sfuggire fatalmente piuttosto che rimanerne incastrati. Una morte prematura e infelice che però, forse, è l’unica maniera per liberarsi. Una morte che è, sicuramente, il solo modo per poter vivere e far vivere.