I fratelli D’Innocenzo e il cast su Favolacce: o lo ami o potresti odiarlo fortissimo

I fratelli D'Innocenzo presentano insieme al cast il loro film Favolacce, on demand dall'11 maggio e vincitore della miglior sceneggiatura a Berlino.

Damiano e Fabio D’Innocenzo si erano ben fatti notare con il loro film di debutto La terra dell’abbastanza. Non il loro primo film scritto, bensì il primo realizzato, in una Roma di periferia dove la criminalità è l’obiettivo perseguito e dove è l’incoscienza della stupidità a farla franca. Presentato a Berlino e ricevuto il nastro d’argento per il miglior regista esordiente, dopo il primo film per i giovani artisti è arrivato il momento di confrontarsi con una di quelle sceneggiature che avevano scritto nel corso degli anni e che è venuta alla luce soltanto adesso, ricalcando la mano che avevano dimostrato di possedere con La terra dell’abbastanza e spingendosi ancora oltre nei territori dell’indecenza umana. Favolacce, anche questo passato al Festival di Berlino e vincitore dell’orso d’argento alla miglior sceneggiatura, è l’aver ammassato insieme le colpe e le ipocrisie delle famiglie di oggi, stipate in lotti tutti uniti da cui giudicarsi a distanza, in un’ulteriore esplorazione del cinema dei fratelli D’innocenzo.

Con un’uscita prevista per il 16 aprile, causa epidemia di COVID-19, la bellissima nuova opera Favolacce sarà disponibile on demand dall’11 maggio su Sky Primafila Premiere, Timvision, Chili, Google Play, Infinity, CG Digital e Rakuten Tv e a presentarcela sono proprio i registi D’innocenzo, insieme ai protagonisti del cast Elio Germano, Barbara Chichiarelli, Gabriel Montesi e Ileana D’Ambra.

I Fratelli D’Innocenzo parlano del loro ultimo film, Favolacce, insieme a Elio Germano e al resto del cast

Da La terra dell’abbastanza a Favolacce, sembra quasi che con il vostro cinema vogliate dimostrare come i padri distruggano i figli e quindi, più in generale, come la generazione che viene prima distrugga quella successiva.

Fabio D’Innocenzo: “Quando uno scrive nessuno pensa di seguire un determinato discorso, poi questo accade perché ognuno ha le proprie ossessioni. È pur vero che la tematica che abbiamo affrontato in entrambi i film è l’abbrutimento che questo paese ha affrontato negli ultimi vent’anni e unire queste figure mostra come spesso le colpe dei genitori ricadono poi sui figli, consciamente o inconsciamente. Quindi è necessario un distanziamento dalle figure genitoriali, è un allontanamento fisiologico e che, forse, oggi farebbe bene proprio per creare una rottura tra generazioni e per ripulire così la società da vizi ormai insediati e atavici.”

Una questione generazionale incarnata proprio da questi genitori che il cast degli adulti rappresenta nel film.

Barbara Chichiarelli: “Una cosa interessante di Favolacce credo sia proprio l’epilogo. Si finisce per interrogarsi su chi sia veramente il genitore e chi siano veramente i figli, visto che a volte i ruoli diventano così indefiniti. Quindi in una rilettura che mi è capitato di fare sul finale vedo proprio questi bambini che arbitrariamente scelgono di interrompere il lascito che i genitori gli stanno dando, dicendo che quindi, forse, l’unica soluzione per salvarsi da tutto è interrompere questa catena genetica.”

Tornando un attimo su La terra dell’abbastanza e Favolacce, quest’ultimo film lo avevate scritto ben prima del vostro titolo d’esordio. Come è stato riprendere in mano il progetto?

Damiano D’Innocenzo: “Quando abbiamo scritto Favolacce non avevamo idea di come lo avremmo girato proprio perché non sapevamo come si girava un film. Ma noi abbiamo sempre scritto le sceneggiature. Prima di Favolacce ne avevamo scritte già quattro o cinque. Andavamo a stamparle e per noi quello era già aver fatto un film. Poi sono arrivati i maestri, quelli giusti e anche quelli sbagliati, che forse ti aiutano anche di più. E quando abbiamo finalmente messo in scena Favolacce devo dire che il procedimento è stato piuttosto naturale. Non certo facile, ma eravamo sospinti da una determinata sensibilità. C’è stato un abbracciarsi con i nostri attori i quali, a propria volta, hanno abbracciato determinate corde del racconto. Sono persone che non si nascondono e quando sei sul set, in quei momenti in cui non si gira, in cui magari aspettano o stanno mangiando, puoi intravedere in loro qualcosa di davvero bello ed è di questo che mi sono innamorato. Mi sono innamorato di tutti loro proprio per queste cose, perché è lì che ci riconosciamo più simili. Per noi questo approccio è fondamentale perché altrimenti significa soltanto passare il tempo insieme per tre mesi senza cavarne un ragno dal buco.”

A questo proposito, come è stato dunque farsi dirigere da questi due giovani registi?

Ileana D’Ambra: “Venendo dal teatro mi sono approcciata a questa esperienza un po’ ad occhi chiusi. C’è però da dire che come registi non ti lasciano mai da solo, questa è stata la mia prima sensazione. Mi hanno detto subito che sarebbe stato un viaggio che avremmo fatto insieme e che non sarei mai stata sola e così è stato. Hanno un’estrema delicatezza nel rapportarsi con gli attori, li trattano come diamanti. Questo significa anche che non ti daranno indicazioni eccessive, ma si fidano tanto e io mi sono sentita immersa in questa fiducia.”

Gabriel Montesi: “Sono d’accordo con Ileana. Prima che registi sono delle persone. Non si mettono sulla cattedra, non sono dei tiranni, mostrano la parte più sana di questo mestiere. Sono delle guide che ti lasciano la possibilità di esprimerti come vuoi, dandoti molta fiducia, ma non lasciando nulla al caso. Ed è da lì che nasce la creatività. Incontrarli è stata una delle cose più belle.”

B.C.: “Hanno la mia stima più totale. Credo davvero siano due persone che non hanno paura di essere se stesse. Continuano a essere due poeti e noi abbiamo bisogno di poeti. Ma ripeto, anche se decidessero di fare un cartone animato dopo questo film avrebbero comunque la mia totale stima.”

Elio Germano: “C’è stato del coraggio nella produzione di Favolacce perché ha permesso ai registi di scegliere gli attori che preferivano. È poi bello confrontarsi con attori che vengono da ambienti diversi. Quella con i D’innocenzo è una modalità di lavoro molto appagante perché ti prospetta più su un viverle le cose, non programmarle. Significa più essere qualcosa, che semplicemente riprodurlo.”

Fratelli D’Innocenzo: “C’è chi entrerà completamente in Favolacce. Chi non lo farà potrebbe odiarlo fortissimo.”favolacce, cinematographe

Nel film si ricorre spesso al concetto di colpa. Secondo voi è perché bisogna sempre trovare un capro espiatorio?

F.D.: “Nel momento storico in cui ci troviamo a vivere ci sono dei binari che per una questione di giocoforza è più facile seguire. Questi binari li abbiamo formati tutti noi insieme semplicemente giustificando i nostri errori. Questo ci condiziona politicamente, con ciò che facciamo passare in tv o in qualunque altra maniera. C’è una spinta che ti fa dire che se lo fanno tutti, allora è concesso farlo anche a te. Ma questo diventa un ciclo che, se non si interrompe, non può permettere di andare avanti.”

E.G.: “Penso che il concetto di colpa sia qualcosa che ci serve per sentire che non siamo noi i colpevoli, come diceva De Andrè, per assolverci. In Favolacce il fatto di poter dire “era una famiglia normale” nasconde tutta l’inquietudine dietro. È un mondo ormai fatto di rappresentazioni dove nessuno si fa più domande, nessuno si interroga più sulla vita delle persone. È come se interpretassimo tutti un ruolo e nessuno si chiedesse perché lo stiamo facendo. Questo è il virus che ci ha contagiato in questa parte di storia dell’umanità.”

Se La terra dell’abbastanza era più circoscritto, un film sulla periferia romana, Favolacce sembra poter avere un respiro più universale, che possa riferirsi a una realtà più unitaria.

D.D.: “Era quello che volevamo. Da La terra dell’abbastanza c’era la possibilità di evadere perché guardandolo uno poteva pensare che quella storia non lo toccasse, visto che non era nato o cresciuto in periferia. Qui invece nessuno piò tirarsene fuori. Favolacce è geograficamente non definito, nonostante il dialetto romano finisca per dare una sorta di locazione. Per le case poi volevamo agire secondo una simmetria degli sbagli, in questo quartiere lindo e inoffensivo, dove tutti sono molto igienici. Ci sembrava un bel covo in cui stipare tanta malsanità. Guardando a Favolacce io sono quei bambini, ma sono anche quegli adulti. Noi lo siamo. E questo suscita credibilità artistica. Non giudichiamo nessuno, per questo guardando Favolacce o accetti il pacchetto completo o potresti finire per odiare il film fortissimo.”

Pensate che in qualche modo affrontare Favolacce vi ha portato a un cambiamento in senso artistico? Vi sentite cresciuti o cambiati o siete riusciti ad affrontare quei demoni che sembra voi vogliate esorcizzare con i vostri film?

F.D.: “I cambiamenti, come tutte le cose, li capiremo solo quando potremmo vederli a distanza. Sicuramente dobbiamo ancora abituarci a cosa questo comporta nella nostra vita e carriera. Abbiamo un’insicurezza talmente grande che quando ci chiedono come ci relazioniamo al successo chiediamo ancora “Cosa vuol dire successo?”. Certamente noi siamo comunque nelle nostre case tranquilli, mentre mandiamo in avan scoperta i nostri personaggi per scoprire poi pian piano noi stessi.”

D.D.: “Attraversare i propri demoni è complicato. Sul set Fabio e io dovevamo sincerarci di due cose: la prima che la scena fosse venuta bene, la seconda che non scoppiassimo in lacrime. Noi siamo dei privilegiati perché possiamo esorcizzare i nostri demoni e insieme pagarci l’affitto. Bisogna comunque ricordare che alcuni dei demoni derivano direttamente dalla paura ed è quella che divide. Per questo è miracoloso quando puoi condividerla con i tuoi attori, con le persone con cui stai insieme, perché ti accorgi che è uguale per tutti e finisce per farvi sentire uniti. La paura drammaturgicamente ha un ritmo che non possiede nessun’altra cosa, ma nella vita vera e mentre fai un film può aiutarti a entrare in contatto con le altre persone.”

Un aspetto di Favolacce è la sessualità che cercate di analizzare così come provano a farlo i bambini stessi, il tutto però rimanendo molto velato. Fino a dove avreste voluto spingervi realmente?

D.D.: “Se fosse stato possibile non ci saremmo mai fermati, quello che ci ha impedito di farlo è stato il divieto per i diciotto anni. La sessualità è sempre un mistero. Non è vero che crescendo diventa più chiara, anzi, forse finiamo per incespicarci di più. È interessante che tra un bambino di cinque anni e un uomo di novanta non si sa mai bene chi ne sappia di più, proprio perché è qualcosa di fluido. Le prime forme sessuali sono spesso incoscienti, ricordo che da piccolo a un certo punto ho iniziato a guardare le donne, ma con una malizia leggera visto che nemmeno sapevo cosa potessi farci con una donna. È uno stato di ingenuità e confusione che non riesci a capire. Magari chissà, prima o poi faremo un film erotico. Pochissimi riescono a farli perché basta poco per risultare o villani o banali. Forse la maniera migliore per affrontare un mondo simile è la musica.”

È incredibile, poi, come questa sessualità, come ogni altra componente del film, vada a riferirsi a una categoria come quella dei bambini, che a volte sono proprio coloro che non hanno voce.

D.D.: “È vero, bambini, anziani, senza tetto e persone in carcere sono sempre le persone che non hanno possibilità far sentire la propria voce. Perché anche in un mondo che cambia, come questo che stiamo attraversando, a parlare rimangono sempre le stesse persone e questo è terribile.”

F.D.: “Per sopravvivere forse questi bambini possono solo nutrirsi del proprio intuito, che poi si sporca anche quello con gli anni. Ma in quella fase e con il giusto intuito i bambini possono arrivare a delle verità anche molto importanti. Mi ricordo come noi da piccoli pensavamo di capire tutto della vita e da grandi ci siamo resi conto che, non avendo seguito il nostro intuito, ci siamo ritrovati a commettere le stesse stupidaggini di tanti altri.”

Elio Germano su Favolacce: “Per loro non dovevamo solo stare nella situazione, ma viverla”favolacce, cinematographe

Che poi quello che cercate di fare voi è già un cinema unico rispetto alle solite produzioni italiane.

F.D.: “Non penso che siamo solo noi a fare questo tipo di cinema. L’effetto paradossale è che molti autori presentano la loro storia già diluita perché sanno che in Italia c’è un tipo di cinema più facile da poter realizzare, quindi è prevedibile cadere nell’autocensura. Questo sistema pandemico crea un circolo vizioso da cui è difficile uscire. In Italia si è sempre fatto un cinema personale, ma magari con una componente viscerale che rendeva il tutto troppo ermeneutico. È il momento di andare verso un cinema più carnale e sensoriale. Non per forza aprendosi a modelli americani o asiatici, ma alle contaminazioni che sono fondamentali, ma non ci appartengono. Quello che abbiamo cercato di fare è un film arthouse d’autore un po’ rachitico contaminato a Charlie Brown, Stephen King, alle grafic novel a livello visivo e anche scomodando un genio come Hopper nelle intenzioni. Queste realtà spesso rimangono underground, quindi bisogna che sia il sistema a fare passi in avanti su linguaggi e tematiche più estreme da far arrivare al pubblico.”

C’è chi in Favolacce ha rivisto un filone americano ben noto, chi un’atmosfera alla Dogtooth di Yorgos Lanthimos. Da chi avete tratto per i vostri riferimenti nel film?

F.D.: “I nostri riferimenti sono tutti basati sulla poetica di Charles Shulz e il suo Charlie Brown, una dose di semplicità raggiungibile con una dose di verità incredibile. Posso dire che Charlie Brown è la mia bibbia, tutte le mie cose sono lì. Poi prendiamo molto dalla letteratura americana. Lì abbiamo trovato sempre una semplicità che mancava alla letteratura italiana, a parte Gianni Rodari.”

Per gli attori invece? Vi siete ispirati a persone della vita quotidiana per impersonare i vostri personaggi?

B.C.: “Il personaggio era già tutto scritto. Poche volte si hanno personaggi ben scritti come quelli lì. Fabio e Damiano poi ti permettono di poter lavorare in grande libertà, guidandoci semplicemente.”

I.D.: “Oltre a guardarmi attorno e osservare cosa vivo e ho vissuto, ho chiesto una grossa mano a mia madre che si occupa di mediazione famigliare. Si occupa di genitori e figli e cosa intercorre tra loro, quello che poi mi sono fatta spiegare per capire in che mondo viviamo oggi.”

G.M: “C’è stata un’osservazione su due piani, uno interiore, uno esteriore. Nella sceneggiatura c’erano come degli specchi tra le righe in cui era possibile intravedere questi due piani.”

E.G.: “Il metodo è stato farci evocare cose che ci dovevano essere senza però essere necessariamente precise. Perché l’idea è che la vita vera è sempre più complicata di quanto un attore può coscientemente riportare. Quindi bisogna essere principalmente corpi e esseri umani. Siamo stati chiamati ad essere quelle persone, non ci interessava nemmeno dove stava la macchina da presa o quanto di nostro sarebbe andato perso durante il montaggio. È stato un grande regalo la sperimentazione di questa libertà, senza la presunzione di voler essere al di sopra del racconto.”

Cosa potete dirci sulla serie tv che state scrivendo? Continuerà a seguire le direttive dei vostri primi due film?

F.D.: “La serie tv avrà un registro completamente differente. Come spettatori cerchiamo di stupirci e non trovare formule collaudate, per questo quando scriviamo mettiamo quello che vorremmo vedere e che spesso viene negato dal cinema italiano. Noi amiamo il cinema divisorio e cerchiamo questa formula anche per la televisione, anche se sembra un po’ un’utopia visto che qui si ricercano i grandi numeri. Ma ci va di confrontarci con una narrazione a lungo termine. Siamo però ancora in fase di scrittura, non sappiamo ancora bene di cosa si tratta. Possiamo dire che è un noir e che stiamo affrontando il progetto con grande rispetto e paura.”

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Il film sarebbe dovuto uscire nelle sale il 16 aprile, ma a causa della pandemia finirà direttamente in digitale. Cosa pensate di questa uscita on demand e come vedete il futuro del cinema e delle sue narrazioni?

D.D.: “Vedo l’uscita in piattaforma come una ideale ripartenza per il cinema italiano. E quando dico cinema qui intendo industria. Noi siamo tra i fortunati che per un anno possono anche permettersi di non lavorare, ma bisogna guardare a chi lavora in parallelo in questo settore perché se non si trova il modo di sostenerci non ci sarà più niente dopo. Non siamo poi gli unici ad uscire in digitale, lo farà la Comencini con Tornare e lo hanno fatto altri. Ma diciamolo pure, l’esperienza del cinema è inarrivabile. È come con le partite, la Roma può vincere anche se la guardi in tv, ma non è la stessa cosa di stare allo stadio. Al momento vivo questa uscita in digitale come una liberazione.”

F.D.: “Sarebbe limitante pensare che tutti scriveranno di questo argomento da ora in poi. Per quanto ci riguarda poi noi non ci approcciamo tanto alla cronaca o a cosa stiamo vivendo, bensì all’archetipo, il simbolo. Questo è ciò su cui si basa la nostra scrittura. C’è l’isolamento, la voglia di escapismo, la liberazione, ma questi sono temi che esistono da sempre. Per fare un film sull’isolamento non serve la pandemia, Taxi Driver è degli anni Settanta ed è il più bel film sull’isolamento. Noi lavoriamo sul simbolo, perché mentre la cronaca va via, è quello che rimane.”

E.G.: “Spero che da questa pandemia avremo imparato qualcosa. Stare a casa senza possibilità di lavorare per me può anche essere una possibilità, ma non lo è per tutti. Il nostro settore è già molto fragile, non c’è coesione, né tutela legale, si respira una grande competizione. Quello che rischiamo è che nessuno tragga i giusti insegnamenti dalla situazione e che ne pagheranno i più fragili. Ora che i set vogliono venir riaperti ad andare saranno quelli costretti a non poter dire no. Bisogna fare davvero molta attenzione.”