Editoriale | Don’t look up e l’urlo di Leonardo DiCaprio. Un moderno Munch? 

Che relazione può esserci mai tra L'urlo di Edvard Munch e Don't look up, il film Netflix diretto da Adam McKay? La nostra analisi del (sur)reale

Don’t look up, un film che sorprende sotto tanti punti di vista e che per la stessa stramba ragione scala la classifica all’interno del colosso dello streaming, Netflix. Una tela di ragno che sembra essere architettata a suon di algoritmo – proprio come l’avanzata tecnologia della Bash, a cui fa capo Peter Isherwell (interpretato da Mark Rylance) – e che riesce a replicare ironicamente e drammaticamente la contemporaneità così asfissiante di cui facciamo parte. Perché a un certo punto siamo in emergenza o, meglio, a un certo punto qualcuno ci fa capire che c’è davvero un grosso problema da risolvere e che se non lo facciamo finiremo per scomparire (nella migliore delle ipotesi cancellati da un asteroide, alla peggiore ci hanno già pensato tutti i vari film e le serie TV post-apocalittiche); c’è un’emergenza e i grandi della Terra dovrebbero fare qualcosa, poco importa se il dilemma ruota attorno all’estinzione, alla crisi economica, atmosferica, nucleare o pandemica, poiché il fulcro di tutto coincide con la reazione dell’opinione pubblica e la gestione dell’informazione.

Don’t look up: un solo film, tante trame

Adam McKay col suo Don’t look up apre un vaso di Pandora dal quale fuoriescono molteplici spunti narrativi, tutti solo accennati ma a loro modo rilevanti per comporre un mosaico polivalente in cui effettivamente tutti possono trovare il tassello a loro più confacente, ognuno può trovare un appiglio per elogiare il lungometraggio, elevandolo al rango di “capolavoro” e parimenti può denigrarlo, non capirlo. Eppure il punto di tutto non è se il film piace o no e perché: il regista, premio Oscar per La grande scommessa, innesca la miccia di un macro dibattito e in questo sta la sua abilità, fomentare e far riflettere la folla di telespettatori.
Se la dottoranda che scopre la cometa, Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence), finisce per essere presa in giro con meme e insulti sui social e poi relegata ai margini della società può farsi portavoce della disparità tra generi e generazioni, la strepitosa Meryl Streep nei panni della presidente Janie Orlean è il ritratto raccapricciante e glorioso della politica 2.0: donna di spettacolo e d’affari, a cui basta una sigaretta in bocca (l’esternazione di un vizio, dunque) per essere apprezzata. Superficiale, anaffettiva, egoista e paurosamente pop, racchiude in sé tanti piccoli indizi di ciò che la politica di fatto ormai è, ma che assolutamente non dovrebbe essere. Per non parlare del figlio della presidentessa, Jason Orlean (interpretato da Jonah Hill): ritratto di chi, giunto al potere immeritatamente, usa le armi in suo possesso senza scrupoli né logica, in maniera totalmente ridicola!

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Personaggi, quelli citati, che ingrossano le fila di un cast stratosferico in cui un premio Oscar viene usato senza batter ciglio alla stregua di una comparsa (come a dire, “qui non si bada a spese”) e che confluisce in un unico e spaventosamente veritiero teatro dell’assurdo. A fornirne il palcoscenico per eccellenza un programma TV – il nome strizza palesemente l’occhio all’autorevole New York Times – condotto da due giornalisti dalla risata cronica (a interpretarli Cate Blanchett e Tyler Perry). Anche in questo caso, la fiamma che dovrebbe animare il valore dell’informazione si spegne a favore di una spettacolarizzazione frivola e sterile in cui va detto solo ciò che risulta allettante, popolare, divertente, in una parola leggero.
Non stupisce allora se la ribelle Kate venga subito eliminata dalla trasmissione, mentre un trattamento ben differente viene riservato al prof. Mindy (Leonardo DiCaprio), ingenuo e di gran lunga più pacato della sua studentessa, subito eletto a uomo più sexy del momento. Un individuo comune, certamente intelligente e preparato, con una famiglia normale alle spalle, una vita ordinaria. A detta di Isherwell, terzo uomo più ricco del mondo (mix perfetto tra Steve Jobs, Bill Gates ed Elon Musk), inventore di un algoritmo in grado persino di prevedere il modo in cui moriremo, Mindy si crede un idealista ma in fondo non fa niente di diverso dal resto delle persone comuni: insegue il piacere e sfugge dal dolore.

E quell’uomo così ordinario, a sua insaputa sexy, che va a letto con una donna bellissima (nettamente al di sopra della sua portata) per poi ritornare dalla sua famiglia con la coda in mezzo alle gambe, alla fine reagisce alla fine del mondo (e alle speranze di salvarlo) con un urlo disperato, irato, irrorato di razionalità e sfrenatezza, intriso fino al midollo di amara consapevolezza. Quell’uomo di scienza, che si è lasciato coinvolgere in un gioco delle parti apparentemente lineare, a un certo punto guarda il mondo intorno, si guarda dentro e poi esplode. L’orrore lo fa trasalire, lo trasforma fisicamente: diventa paonazzo, rigido, scomposto (il modo in cui la telecamera lo inquadra ne acuisce l’ineleganza).

Cosa c’entra L’urlo di Edvard Munch con Don’t look up, il film Netflix diretto da Adam McKay?

La precisione chirurgica con cui Leonardo DiCaprio si fa portavoce di un urlo disperato la si riconduce alla sua ineccepibile capacità recitativa; il significato che in quell’esternazione si colloca, però, non può non farci pensare a uno degli urli più famosi della storia dell’arte, quello dipinto da Edvard Munch (per la prima volta) nel 1893.
Non ci sono dubbi interpretativi in merito all’opera del pittore norvegese, poiché egli stesso spiegò il motivo che lo condusse a eseguire una serie di dipinti tra il 1893 e il 1910 ritraenti la disperazione lancinante di un uomo il quale, sovrastato dal terrore, muta la sua forma e quella del mondo che lo circonda. Il corpo così assume una forma serpentesca, la strada, il cielo, il monte vengono risucchiati in un vortice surreale in cui ogni traccia di colore, ogni linea, ogni pensiero, vibrano ai rintocchi del dolore e della solitudine.

Quell’uomo che è Munch stesso fissa su legno l’esperienza personale dell’artista e l’angoscia che d’un tratto lo percorre nel vedere il mondo secondo un’altra prospettiva e udire (realmente) quell’urlo della natura. Incapace di comunicare, di farsi ascoltare: il soggetto grida disperato con tutta l’aria che ha nei polmoni, ma i passanti alle sue spalle restano immobili, sono le uniche figure a non avvertire la pressione della sua voce. Allo stesso modo, il personaggio interpretato da DiCaprio grida la sua verità in TV e i conduttori restano immobili e in palese imbarazzo, se ne sbarazzano, dopo, come se fosse un rifiuto umano, senza neanche tentare di comprendere le ragioni del suo gesto.

Da sinistra, L’urlo di Edvard Munch nella versione del 1893 (pastello su cartone); versione del 1895 (pastello su cartone); versione del 1910 (tempera su pannello). Sia l’opera del 1893 che quella del 1910 si trovano presso il Museo Munch di Oslo

Simpatico pensare che molto probabilmente il cielo rosso fa riferimento a un evento naturale realmente accaduto, al quale l’artista sembra aver assistito di persona (l’eruzione del Krakatoa del 1883), come se ci fosse un involontario collegamento tra questa tempera su tavola (ma anche pastello su cartone) e la pellicola diretta da Adam McKay.
Involontario, già, perché un corridoio diretto che ci porti dritti dall’opera a questa sequenza del film chiaramente non esiste. Tuttavia, come dicevamo in apertura, il pregio e il difetto di Don’t look up sta nel non voler assumere una forma ben definita, proprio come L’urlo di Edvard Munch il film Netflix si lascia attraversare da elogi e critiche, dal marasma delle idee che scombussolano la visione del reale.

E se c’è chi parafrasa Don’t look up a colpi di pandemia, dominio social, politically correct, disastro ambientale e affini, noi ci prendiamo parimenti la nostra libertà di citare un’opera d’arte simbolo dell’inadeguatezza, non per forza legata alla malattia mentale. Sono infatti note ai più le sofferenze psichiche che hanno attanagliato l’autore del dipinto citato e che creano un inevitabile legame di significati con ciò che Munch ha rappresentato, però al di là della coltre del disagio mentale si erge una difficoltà diffusa di essere compresi e accettati, di non essere ascoltati nonostante ciò che si asserisce sia palese e inopinabile. Bene, alla luce di tutto ciò, Don’t look up forse non sarà un capolavoro e neanche un film pessimo, non sarà reale o verosimile, sarà o non sarà tante cose, ma certamente, almeno per una manciata di minuti, è ciò che dovrebbe essere: il ritratto della disperazione progressista, in cui non conta neanche più ciò che appare, bensì solo ed esclusivamente ciò che serve allo scopo di pochissimi (eletti in una finta democrazia).

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