Blackhat: spiegazione del finale dell’ultimo film di Michael Mann

Blackhat è stato uno dei peggiori flop cinematografici del suo anno anche a causa di una scena finale che è stata sottovalutata da molti.

Prodotto, diretto e scritto da Michael Mann, Blackhat (2015) rappresenta l’atteso ritorno alla regia dell’iconico filmmaker statunitense, il quale si era allontanato dalla macchina da presa per sei anni, ovvero con la conclusione della realizzazione e la finale distribuzione di Nemico pubblico – Public Enemies (2009).

Ispirato dalla diffusione di un malware conosciuto con il nome di Stuxnet, progettato da israeliani e americani per danneggiare un impianto nucleare, l’ultimo lungometraggio di Mann si sofferma a narrare le vicende che interessano in prima persona Nicholas Hathaway, un brillante hacker che, rinchiuso in prigione per molteplici crimini cibernetici, è interpretato da un interessante, ma incompreso Chris Hemsworth. 

Nonostante il budget di produzione fosse alquanto alto, ammontando a circa 70 milioni di dollari, Blackhat è stato uno dei peggiori flop cinematografici del suo anno, incassando poco più di un quarto del suo costo. Sebbene fosse costellato da colpi di genio, partendo dalla controversa scelta di Hemsworth come protagonista fino ad arrivare all’estetica del film, il lungometraggio si è rivelato essere un insuccesso non solo alla scelta di campagna marketing, focalizzata su un pubblico completamente diverso da quello a cui si appellava la pellicola, ma anche – e sopratutto – ad una criptica scena finale che, nonostante possa essere sembrata superficiale e colma di errori ingiustificabili, è tutt’altro che malfatta.

Blackhat: la spiegazione del finale dell’ultimo film di Michael Mann

Scena finale di Blackhat cinematographe.it

Impegnati nella risoluzione del piano cospirativo di un cyber-criminale, i servizi speciali cinesi e americani decidono di contattare l’ex carcerato Nicholas Hathaway, che si rivelerà essere un aiuto cruciale in questa difficoltosa e rischiosa caccia ad un malvivente immateriale, visibile solamente nella misteriosa complessità della rete. Una caccia che si snoderà da Chicago a Hong Kong.

Resa complessa attraverso una brillante messinscena, fatta delle luci irreali e iridescenti delle metropoli e della complessità dei numeri che compongono un codice, la trama di Blackhat appare caratterizzarsi come una sinossi realistica e lineare che presenta un’analisi adeguatamente approfondita su quelli che sono i problemi legati all’hacking, vera e propria tragedia dell’era della tecnologia. Eppure, nonostante tutto ciò, non sono in pochi gli spettatori che hanno storto il naso, non troppo convinti a causa della scena finale del lungometraggio, nella quale, in seguito a un necessario hack di Hathaway ai database della NSA (National Security Agency, ovvero l’ente incaricato della sicurezza in ambito interno-nazionale, ndr), il protagonista e il suo interesse amoroso Lien (Tang Wei) sono costretti a scappare, seguiti dagli antagonisti Elias Kassar (Ritchie Coster) e Sadak (Yorick van Wageningen), l’hacker che i servizi segreti americani stavano febbrilmente cercando da lungo tempo.

L’epilogo finale prevede un incontro di Hathaway e Kassar, accompagnato dai suoi scagnozzi, nonostante il personaggio interpretato da Hemsworth lo avesse intimato di raggiungerlo da solo. Mentre perquisisce Hathaway, a conoscenza della presenza del gruppo dei tirapiedi, Kassar viene pugnalato con un cacciavite, morendo di lì a breve: l’omicidio scatenerà un combattimento a fuoco, dove il protagonista uccide due degli uomini dell’assassino, nonostante fosse stato ferito gravemente. Dopo che tutti, a parte loro, sono stati uccisi, Nicholas e Lien lasciano l’Indonesia, vivendo le loro vite come ricchi fuorilegge, con i soldi illegalmente guadagnati da Sadak sul loro conto in banca.

Certo, anche il finale sembra essere ragionato quanto il resto di Blackhat. Eppure molti spettatori hanno notato una distrazione alquanto grave: i soldi del misterioso hacker, che si rivelerà essere Sadak, ammontavano precisamente a 74 milioni di dollari, mentre il conto bancario di Hathaway, catturato in un frame finale del lungometraggio, ne mostrava solamente 47 milioni. 

In questo caso, l’errore non è dovuto a una disattenzione di Michael Mann, ma a una semplice disattenzione dello spettatore, dovuta soprattutto alla superficialità con cui molto spesso si visionano i film: la cifra del conto in banca, infatti, non è di 47 milioni di dollari, ma di euro. Controllando quelli che erano i tassi di cambio dal dollaro all’euro al momento della creazione di Blackhat, ovvero nel 2013 circa, noteremo come il tasso era stabile a 1.35, durante quel periodo. Considerando ulteriori fattori volti all’approssimazione del risultato e ipotizzando che il protagonista abbia speso un po’ per il viaggio necessario ad abbandonare l’Indonesia, allora l’importo risulterà più che verosimile e giustificato. 

I cyber-agenti dell’FBI che hanno collaborato alla realizzazione di Blackhat commentano il suo finale

Scena finale di Blackhat cinematographe.it

“Concordo quando dicono che la messinscena si spinga un po’ troppo ai limiti del reale”, ha commentato l’ex cyber-agente dell’FBI Michael Panico, uno dei due consulenti  che sono stati contattati per collaborare nella realizzazione di Blackhat. “Ho sentito molte lamentele, ma (gli spettatori, ndr) devono capire che non volevamo realizzare un documentario. Stavamo girando un film. Abbiamo reso tutto il più realistico possibile”, ha aggiunto.

Anche l’altro consulente, l’ex hacker Kevin Poulsen, è d’accordo con ciò che è stato dichiarato dal collega. Quando gli è stato domandato se fosse possibile che un agente ingaggiato dalla NSA non riuscisse a riconoscere un attacco di phishing (truffa cibernetica attraverso la quale si cerca d’ingannare la vittima convincendola a fornire informazioni personali, ndr), Poulsen ha detto che “potrebbe succedere”. “Ho visto un sacco di scetticismo, ma penso che sia completamente realistico: un attacco di spear phishing ben costruito è in grado di ingannare quasi tutti. Non deve essere solamente come quelle email casuali e malfatte che riceviamo tutti i giorni” ha sostenuto, prima di aggiungere che “è così che è iniziato l’hacking che ha danneggiato Sony” non molto tempo fa.

Difendendo le sensate scelte del regista americano, Panico ha aggiunto che “l’aspetto interessante è che la trama è guidata solamente dalle scene di hacking, mentre le sequenze d’azione derivano dagli effetti che esso ha sulle persone”. Nel commento del consulente riecheggiano le parole che Hathaway pronuncia poco prima dell’apice del climax di azione e tensione del film, identificato con il finale: “Non si tratta solamente di uno zero o di un uno”. E lo stesso si può applicare all’ultimo lungometraggio di Michael Mann: Blackhat non è solamente un codice o un pericoloso attacco organizzato da un hacker.