1917 e l’interpretazione di George MacKay: non solo questione di fisico!

Fuori tutta la passione, il sudore, il coraggio. E via gli stunt! Nell'interpretazione di George MacKay c'è tutto l'orrore e il coraggio di 1917.

Non si può non parlare di 1917. Il suo esser stato realizzato come un unico piano sequenza, in un contesto di distruzione e morte come quello della Prima Guerra Mondiale che lo ha portato a muoversi fluidamente nei serpentini percorsi delle trincee fino all’aprirsi delle distese indifese della campagna europea, ha catalizzato l’attenzione di pubblico e selezionatori di premi, che hanno deciso di riconoscere la maestranza tecnica di cui la pellicola si è mostrata portatrice e ne ha esaltato l’accuratezza pragmatica e registica in relazione alla scelta utilizzata. Il suo estendersi nello spazio e nel tempo come un’unica lunga inquadratura, che potrebbe protrarsi all’infinito come accadrebbe alla vita, ne ha fatto un lavoro e un discorso di scelta meccanica pur non trascurandone le accezioni artistiche, ma mettendone quasi in secondo piano un fattore umano che, a visione del film, si rivela poi quello ben più pressante all’interno del racconto.

È la presenza fisica di George MacKay a porsi in maniera fondamentale nelle sorti di 1917, che sembrerebbe poter venir surclassata dall’imponenza di un’operazione come quella della regia di Sam Mendes e della fotografia del premio Oscar Roger Deakins, ma che l’attore principale riesce a portare perfettamente sulle proprie spalle, come il destino da soldato che l’esistenza gli ha riservato. Nel ruolo del commilitone William Schofield, MacKay raffigura primariamente l’austerità di un giovane che è diventato uomo troppo presto, che ha dovuto assumere su di sé delle responsabilità che, a causa degli eventi e della stagione bellicosa, ne hanno limitato l’innocenza, rendendolo da subito soldato tra i soldati, corpo da combattimento in una guerra che sembrava non avere fine.

Le corse, le trincee, gli stunt: la prova fisica di George MacKay1917, cinematographe

Quell’essere, dunque, macchina, quel racchiudere nella propria figura un’arma dell’esercito britannico, si ripercuote nelle azioni del protagonista Schofield, nonché nella sfida estrema a cui George MacKay viene sottoposto. Scegliendo di cimentarsi per proprio conto nelle parti più complesse della pellicola, rinunciando alla possibilità di poter lasciarsi sostituire dagli stunt per le sequenze più ardite, MacKay adotta l’immedesimazione completa nel personaggio prendendone sulle spalle le difficoltà fisiche, spingendosi così, ad ogni passo, allo stremo delle forze. Mettendo primariamente la sostanza muscolare nella propria performance, rendendola omogenea alla coerenza del film.

Il voler mostrare l’insistente e incontrollabile banalità della guerra, la devastazione che suscita tutt’attorno e si espande per i territori delle battaglie, si mostrerà così nella missione di un soldato e nella volontà simil da automa che quest’ultimo deve attivare, unica maniera per poter sopraggiungere al luogo dell’imboscata e avvertire i propri compagni del piano messo in atto dai tedeschi. Nel costringersi a una severità impenetrabile, aggravata dagli orrori della guerra che, passati con talmente tanta frequenza davanti agli occhi, non riescono più a suscitarne l’adeguata pietà, il protagonista di George MacKay si fa inaccessibile nel proprio volto, per far parlare le proprie gambe alzate in aria, le braccia lungo i fianchi pronte a dare la spinta per scappare al minimo segno di pericolo, per mettersi in marcia, sull’attenti, nascosto o a tutta velocità per sfuggire, così, dal pericolo.

Il corpo-arma nel film di 1917

Incollandosi al piano sequenza di Sam Mendes, con la macchina da presa decisa a non tralasciare nemmeno un passo del suo camerata Schofield, MacKay concede empatia al proprio viso solo nel donare il proprio latte a una donna e la “sua” bambina o nel veder morire crudelmente il proprio compagno di armi. Ma, per la maggior parte della pellicola, è la corsa infrenabile che ne caratterizza il personaggio, su cui l’attore costruisce la propria interpretazione, restituendone il senso di pericolo da cui fatalmente sfugge, in un ritmo cadenzato che rende la sua performance un mestiere muscolare e relegato, soprattutto, all’accelerazione del battito vitale.

È così che, più si procede nel film e più si arriva alla fine di 1917, George MacKay modifica il proprio modo di farsi catturare dalla camera. Quel vigore che vedevamo trasposto ad inizio pellicola, comincia gradualmente a lasciare il posto alla stanchezza di un compito assegnato al soldato e che l’uomo deve riuscire a completare nell’arco di ventiquattro ore. Il commilitone Schofield comincia ad accusare i dolori delle cadute, delle esplosioni impreviste, l’impossibilità di fermarsi in qualsiasi punto prima di aver raggiungo la base amica. Un personaggio che passa tutto per quel corpo militare che, nel Novecento, veniva allineato ai meccanismi del Futurismo, della velocità, dell’organismo come macchina e utilizzato per sconfiggere i nemici in guerra. Tutto circoscritto in un piano sequenza. Tutto nel correre disperato e inarrestabile del protagonista di George MacKay.