Venezia 77 – Lacci: recensione del film di Daniele Luchetti

La vita è ciò che ci capita. Capita che un giorno due persone si incontrino, che per amore o altri insospettabili motivi scelgano di sposarsi, che scelgano di unire le proprie esistenze, di legarle indissolubilmente le une alle altre. Di stabilire dei Lacci. Fili che si aggrovigliano, che aggrovigliano, che creano collegamenti in uno spazio tanto ampio come il mondo e si circoscrivono poi nel corso di alcune vite, di alcuni momenti. E nelle convenzioni che questi rituali sociali – e sentimentali – creano, subentrano poi i figli, le responsabilità, le responsabilità legate ai figli, che diventano parte integrante e imprescindibile della vita dei loro genitori, che da quell’istante li condizioneranno per sempre.

Procedimenti, schemi sempre uguali che si ripeto nonostante le loro singolarità, il loro ripetersi per ogni esistenza e per ogni vita in maniera differenziata, unica. E, nella scelta popolare e culturale, istituzionale e umana di mettere al mondo dei figli, scaturiscono altre svolte, altre scelte e decisioni, scambi che vanno ad influenzare il proprio e l’altrui corso, in uno spago lungo e avvolgente che può tanto liberare quanto rendere, costantemente, stancabilmente incatenati.

La materia dei ricordi di una famiglia lacci, cinematographe

Sono i lacci materiali quelli che Daniele Luchetti riporta nel suo film d’apertura della 77esima Mostra del Cinema di Venezia, il gesto di condivisione di un padre che allaccia le scarpe a suo figlio, anzi, il figlio che sceglie di prendere quel solo e individuale gesto per rendere quel filo un richiamo simbolico a ciò che ci avvicina e si spezza nella vita. La famiglia della penna dello scrittore Domenico Starnone non solo prende la forma e i lineamenti di alcuni dei nostri astri attoriali italiani, ma si avvince della carica dei ricordi di cui il suo libro rincorre l’essenza, ne è straboccantemente pregno. La narrativa letteraria instaura un sostentamento chirurgico per una sceneggiatura che trasforma la memoria in materiale visivo, che non ha timore di invadere lo spazio cinematografico sapendosi però adattare perfettamente, con la mano del regista assieme alla scrittura con Francesco Piccolo e l’ideatore stesso del libro Starnone, fino alla dimensione della messinscena.

Ciò che si faceva, dunque, pilastro focale dell’esperienza di navigazione del romanzo, l’addentrarsi in un’emotività che appartiene a tutti noi perché, da sempre, figli di qualcuno e genitori più o meno mancati di altri, ingombra lo schermo sapendosi rimpastare nel suo formato filmico non con meno incidenza di quanto fatto dalla carta stampata. Le parole di Lacci tornano a restituire, nella sua variante pellicola, tutto il dolore di una vita che è trascorsa così perché così era che doveva capitare. E nel male che sappiamo farci “capitare” la famiglia entra come fautrice di tutto, inizio e fine di quell’insofferenza, di quell’astio, di quelle litigate che facevano mamma e papà e che si ripercuotevano nei giorni, negli anni, nelle esistenze dei propri figli.

Lacci e quel discorso fondamentale su genitori e figli lacci, cinematographe

Sono proprio i figli, perciò, il prodotto di quello che accade. È così che diventano pezzo di quella vita. Di quel binario intrapreso insieme che non sa quanto tempo gli rimane prima di farsi sempre più rabbioso, più insoddisfatto, più distruttivo. Lacci ha qualcosa di noi che solo noi possiamo capire, che solo noi possiamo tenere dentro, che rivediamo quando ci giriamo attorno. Che possiamo provare ad esternare, ma che, essendo grande come la vita, ne servirebbe una intera per poterlo descrivere. Ed è quello che Luchetti fa circoscrivendolo con parsimoniosa sostanza, che mette in piccolo per una pretesa, dolcissima e sincera, di condivisione, di un cinema che prende dalla quotidianità per farla, perché così nel suo porsi, universale.

Rendendo vive le immagini che la mente richiamava con il suo romanzo, avvalendosi della talentuosità di interpreti che, tra reminiscenze e presente, rubano i gesti e i sentimenti ai personaggi per riportarli con adeguata, ma significante minuziosità, Daniele Luchetti fa della memoria la via più tangibile per un discorso su figli e genitori che è il più antico di sempre, ma il più fondante ogni volta: siamo sempre il frutto di come nasciamo, di dove nasciamo, di come cresciamo. Siamo un frutto che può essere nutrito, ma anche un frutto che può venire ammaccato. Siamo un frutto che cerca di cadere lontano dall’albero, tentando di lasciar distante tutto il caos che si può – e che abbiamo visto – immaginare.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 3.5
Recitazione - 3.5
Sonoro - 3.5
Emozione - 4

3.6