RFF14 – The Irishman: recensione del film di Martin Scorsese

The Irishman, presentato in concorso alla quattordicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, è la più crepuscolare e intima opera di Martin Scorsese, che riflette sul genere del gangster movie e sul concetto di fine.

Avendo chiaro il disegno generale della produzione artistica di un autore, lo spettatore tende naturalmente a suddividere la sua opera in fasi. Eppure, il suo percorso artistico è segnato, in maniera significativamente più profonda, da quei rari momenti in cui il cambio di rotta avviene per suo volere, da quelle svolte che lasciano intuire grandi verità sull’evoluzione interna di un regista molto più di quanto non si creda. Un veterano come Martin Scorsese queste tappe le ha certamente toccate in ben più di un’occasione, però stavolta è diverso. Con The Irishman l’implacabile scorrere di un tempo misurato in anni, mesi e giorni, e al cui cospetto le facce e i corpi si consumano, come le relazioni, i ricordi e i rimorsi, sono ben più che tematiche analizzate con dovizia; sono tracce, pensieri, di un uomo che vuole (perché deve) scendere a patti con la propria età e con quali cose comporti il doverla accettare. Anche se la freschezza e l’ingegno creativo con cui mette in scena le vicende tratte da I Heard You Paint Houses (di Charles Brandt), più vitale che mai, davvero non lascerebbero intendere nulla di tutto questo.

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The Irishman: un’opera stratificata che riflette sui concetti di tempo e di fine

The Irishman è la storia di Frank Sheeran, sicario della mafia realmente esistito, reduce dalla Seconda Guerra Mondiale e interpretato da Robert De Niro, e di come sia stato coinvolto nell’omicidio di Jimmy Hoffa, leggendario leader sindacale il cui corpo non è mai stato trovato, qui incarnato dal grandioso volto di Al Pacino. Tutto qui, più o meno. Qualche anno fa avremmo creduto che a coprire la poco rassicurante durata di tre ore e mezza sarebbe stata una sfilza di sequenze iconiche, ritmate da un’ironia accompagnata a copiosi getti di sangue e memorabili scambi di dialogo (che in Goodfellas fungono da veri e propri rivelatori psicologici dei personaggi). L’ironia c’è ancora (ed è quella del brillante Steve Zaillian), il sangue pure: a sorprendere è, piuttosto, la voglia di lasciare alle spalle l’indugio sulla violenza, che non manca, ma viene evocata quasi di soppiatto, giungendo persino più decisa agli occhi e alle orecchie di chi volta lo sguardo come la macchina da presa che si posa su una pianta mentre il suono dei colpi di armi da fuoco cadenza i fotogrammi.

A sorprendere è, ancor di più, l’aver voluto affidare al protagonista di Robert De Niro (e meno al personaggio, ben più umano, di Al Pacino) la più intima prospettiva possibile su importanti questioni, sulla vita e sulla morte, il ruolo di “mediatore” che con le sue azioni parla di rimpianto, del tempo che tutto trascina via, della memoria, dei sentimenti allo spettatore.

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Il Frank di De Niro è l’antitesi del Ray Liotta di Goodfellas: non ha nulla di quell’eterno ricercatore di lusso e di piacere sfrenato, né il suo tragitto sembra avere punti in comune con quello dell’ascesa al potere seguita dalla disfatta, che si presentava come la classica parabola morale dell’antieroe gangster. Se Liotta è il gangster ideale (sempre che ve ne sia uno), quello che nella redenzione si rivela il più umano tra uomini che nelle spietate dinamiche di potere hanno annientato la pietà, De Niro è l’uomo comune che si riscopre capace di raggiungere le massime vette della crudeltà. Le sue aspirazioni si consumano tutte nel semplicissimo desiderio di stabilità e rango in una gerarchia monolitica, e gli eventi più rilevanti sono quelli in cui viene cambiato o terminato il rapporto con un altro mafioso. Come se Scorsese confidasse nelle infinite possibilità che la crime story offre per ricercare e trovare, grazie alla tensione costante dei fili delle relazioni umane, i più importanti momenti dell’esistenza, al di là del semplice edonismo centrale in opere come la già citata Goodfellas o Casino.

The Irishman è il film più crepuscolare e intimo di Martin Scorsese

The Irishman è il film più crepuscolare e intimo di Martin Scorsese: come Clint Eastwood in The Mule, De Niro veste i panni di un uomo diretto verso il capolinea e che, nel tentativo di eludere il naturale arrivo di un epilogo, sembra invece avvicinarlo a ritmo serrato senza nemmeno accorgersene. Lo stile virtuoso che animava i gangster movies di culto del regista negli anni Novanta viene giustamente soppiantato da una regia più calibrata, pacata e a completo servizio della storia di Zaillian, che da sola (scortata, al massimo, da una colonna sonora di estrema eleganza) basterebbe, con l’enorme mole di episodi cardine, a scandire il tempo.

Stratificato come nessuna sua opera prima d’ora, il The Irishman di Scorsese suggella la fine dell’epoca cinematografica degli uomini di mafia con il triste racconto di un’amicizia impossibile alla maniera di Donnie Brasco, in cui il dolore era espresso attraverso l’incompatibilità fra la vita del protagonista e quella del Lefty di Al Pacino. Tutto quello che è stato raccontato con il genere del gangster film sedimenta sotto la struttura di un film che ragiona sul concetto stesso di fine: l’opera stessa è suddivisa in tre lunghi atti che, data anche la futura presenza su piattaforma di streaming, invita a considerare una fruizione per episodi, chiudendo ufficialmente un’epoca di cinema “puro” e abbracciando l’idea di future ibridazioni con la serialità.

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The Irishman: l’accettazione dell’inevitabile in un film estremamente malinconico

Le azioni cruente sono per  Frank un modo per fermare il tempo, che non sembra ascoltarlo e procede ininterrotto verso il termine. Tutto riporta su un concreto piano di realtà che trascina verso l’accettazione dell’inevitabile. Il genere stesso, di cui Scorsese è indiscusso maestro e più iconico esponente, ribadisce con quest’opera la sua presenza nel fitto panorama cinematografico attuale e, allo stesso tempo, cede le armi al cospetto del suo stesso declino. Per questo, per il già indimenticabile personaggio di un Al Pacino più grande che mai (in realtà misuratissimo nell’interpretazione del turbolento Hoffa), vero fulcro delle vicende, ma anche per la sorprendente performance di un Joe Pesci da premio Oscar, The Irishman è un’opera impregnata di un senso di malinconia pervasivo, doloroso e quasi opprimente, diffuso ovunque dai movimenti di un uomo che dinanzi all’incedere degli anni, alla perdita (soprattutto degli affetti, e soprattutto femminili), rimane inerte, quieto, a fissare lo stretto varco di una porta semichiusa, così lasciata nella speranza che oltre quella vi sia un’altra possibilità. O, almeno, qualcosa.

Regia - 4.5
Sceneggiatura - 5
Fotografia - 4
Recitazione - 5
Sonoro - 4.5
Emozione - 4.5

4.6