Cinematographe.it presenta Il corriere – The Mule di Clint Eastwood

Qualche considerazione su Il corriere – The Mule di Clint Eastwood, per riflettere sulla sua filmografia, sul suo modo di fare cinema e su una carriera lunga oltre 100 film.

Nessuno come Clint Eastwood manda in tilt le dinamiche delle rigide e manichee suddivisioni fra buoni e cattivi, fra bianco e nero. Clint, nella sua carriera lunga 60 anni, è stato un revanscista sciovinista ai limiti del fascismo, è stato il cowboy leoniano capace di due espressioni (con o senza sigaro), è stato il fautore di un cinema definito repubblicano e incanalato a forza verso quei contorni in quanto sostenitore ed elettore di Donald Trump. I suoi eroi sono senza macchia e senza paura, sono persone che decidono sempre e pagano sulla loro pelle le scelte intraprese, senza mai voltarsi indietro e senza mai dubitare.

Ma come si può etichettare una filmografia lunga quasi 100 film (di cui 40 da regista) in un unico insieme? Semplicemente, non si può, e la critica in particolar modo negli ultimi 15 anni (esattamente da Mystic River) ha fatto un passo indietro, ha sospeso il proprio giudizio. Clint il regista è allora diventato “classico”, senza mai capire bene cosa diavolo mai significhi questa magica o onnicomprensiva parola. E mentre lui si divertiva – e si diverte tutt’ora – a sparigliare le carte raccontando il tragico volo icaresco di una boxeur troppo in là con l’età per salire sul ring, la drammatica battaglia di Iwo Jima da due punti di vista opposti e complementari e la storia del gruppo musicale The Four Seasons, l’opinione pubblica (o chi per lei) mette sotto il tappeto le critiche e lo tratta come un nume tutelare a cui volere essenzialmente bene e sul quale non si può più sindacare.

Clint Eastwood: come un cavallo scosso

La verità – o perlomeno, una delle verità – è che Clint Eastwood è come uno di quei cavalli scossi che si aggirano per il palio di Siena senza più guida: totalmente imprevedibile, assolutamente non irregimentabile; Clint va, a briglia sciolta, e va dove gli pare. Una libertà espositiva e morale che non si può contenere, neanche nei lavori che nascono come asettiche commissioni: per Changeling alla regia inizialmente era stato scelto Ron Howard, per American Sniper Steven Spielberg, per Il corriere – The Mule Ruben Fleischer. Eastwood poi, una volta assunto il controllo del progetto, riesce sempre a restare fedele alla prestazione che gli viene richiesta mettendoci miracolosamente del suo: il suo punto di vista sulle cose, la sua poetica e il suo modus operandi traspaiono da ogni singolo fotogramma, come fossero un nuovo capitolo di una lunghissima storia senza soluzione di continuità.

Il corriere – The Mule è piaciuto al pubblico, sia italiano che americano. E qua si compie un ulteriore prodigio: nel Bel Paese la sua ultima fatica è uscita il 7 febbraio, apparentemente senza avversari diretti. C’è De Luigi col suo 10 giorni senza mamma, d’accordo, e c’è Green Book che probabilmente continuerà a godere di venti favorevoli fino alla notte degli Oscar; ma Clint (per l’Europa come per gli States) è ancora un evento, una visione obbligatoria e trasversale (piccola nota personale: quando ho visto il film la sala era abitata nello stesso identico modo da gruppi di adolescenti, giovani coppie, uomini e donne di mezza età, over 70). Il box office italiano del weekend l’ha vinto lui, sfondando il tetto dei due milioni di euro.

Million Dollar Man

Diverso il discorso in America: in modo non dissimile a Gran Torino, The Mule ha raggiunto le sale già in dicembre, giusto in tempo per le nomination agli Oscar. E, proprio come Gran Torino, poi di nomination non ne ha ottenute. Si apre qui una ulteriore questione, relativa al modo in cui l’Academy sceglie i suoi favoriti. Non si tratta di una esclusione circoscritta, dovuta alla maggior rilevanza di altre tematiche che non possono essere ignorate (la condizione degli afroamericani, il movimento #metoo, l’apertura al cinema popolare e commerciale che entra a gamba tesa nella élite della settima arte): Clint Eastwood è praticamente scomparso dai radar degli Oscar da Million Dollar Baby, da quando cioè portò a casa il bottino pieno incassando 4 premi (tra cui Miglior Film e Miglior Regia). Si pensò erroneamente che quello sarebbe stato il suo ultimo (grande) film, e si optò per una sorta di approssimativo premio alla carriera che onorasse il cineasta di San Francisco.

Ma Clint di importanti e fondamentali film ne ha continuati a fare, e non ha intenzione di smettere; anche quando si ha la sensazione che il talento sia definitivamente appannato (Invictus, Hereafter), poi a sorpresa si ritorna su livelli altissimi (Sully). Torniamo sulla questione degli incassi, ché non si può affatto trascurare visto l’epilogo: negli Usa The Mule è uscito nello stesso giorno di Spider-Man – Un nuovo universo e di Macchine mortali, e proprio in virtù di questa feroce concorrenza le aspettative non erano delle migliori. Il risultato? 6 milioni di dollari nel suo primo giorno di programmazione e 18 milioni complessivi nel weekend, ovvero il terzo miglior risultato nella carriera di Eastwood, dopo Gran Torino e Space Cowboys. Ad una ipotetica domanda sull’utilità del suo modo di fare e intendere il cinema, in un’epoca in cui i multisala si riempiono di sequel, superhero movies e blockbuster da milioni di dollari, non si può che rispondere guardando a questi eccezionali dati.

Il corriere – The Mule: una questione di etica

Dovessimo trovare il filo rosso che collega le ultime sue opere, lo rintracceremmo nella tensione verso il reale, verso le storie realmente accadute. Dei suoi ultimi dodici film (da Flags of Our Fathers del 2006 a Il corriere), ben dieci sono desunti dalla realtà. Si riflette, dunque, sulla condizione dell’uomo contemporaneo, sui suoi errori, sulle sue prese di posizione e, spessissimo, sulle inaspettate decisioni che è costretto a intraprendere.

È – non siamo di certo i primi a dirlo – una questione di etica, di amore verso se stessi e il prossimo e di rivendicazione del proprio libero arbitrio. The Mule parla di un ottantenne che diventa a sua insaputa corriere della droga per il cartello messicano di Sinaloa. Il colpo di scena, qui, non è tanto che il protagonista riesca a sfuggire alle autorità per un decennio, ma che una volta compreso il suo ruolo criminale continui a svolgerlo senza battere ciglio. Perché, anche alla soglia dei 90 anni, la vita si può prendere in mano e plasmare, dandole la forma che meglio si preferisce.

Una morale limpida, quasi lapalissiana, che diventa, nello sguardo fragile e volitivo di Clint così come nell’incedere riflessivo del film, una lezione di vita sul tempo, sulla dignità e sulle mille sfumature che può assumere l’eroismo. Il cinema ha ancora bisogno di Clint, della sua lucidità e della sua limpidezza (di forma, di contenuto)? Sì, assolutamente. La speranza semmai è che Clint continui ancora per un po’ ad avere bisogno del cinema.

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