Esterno notte: recensione finale della serie di Marco Bellocchio

Il cadavere di Aldo Moro nella Renault 4 rossa in via Caetani. Una foto che ha fatto la storia, che assurge a simbolo della Passione di un uomo, del totale disinteresse da parte dello Stato verso chi ne era un rappresentante. Quella foto porta con sé la storia intima di un uomo lasciato solo, quella di una politica che ha abbandonato un compagno, quella di un governo soffocato dalla sua immobilità. Marco Bellocchio, con Esterno notte, una serie composta da sei episodi, in onda su Rai1 il 14, il 15, il 17 novembre 2022, prende quella foto e ne allarga i contorni, abbatte le pareti e guarda ciò che c’è dentro, davanti, dietro, il sangue, le lacrime il silenzio. Si entra nelle case, nei Palazzi, nelle menti, nel dolore e nella paura di chi quei giorni li ha vissuti e di chi li ha sofferti. Bellocchio racconta il trauma collettivo, una frattura che ha segnato un’epoca ed è per questo che per farlo analizza sei punti di vista, è troppo grande la ferita, ancora oggi, è troppo viva e pulsante, ancora oggi, da non sviscerarla ancora e ancora come per trovarne un motivo (di quell’abbandono). Se i primi episodi si sono concentrati su Moro e il momenti precedenti al rapimento (episodio 1), su Cossiga, le sue estreme fragilità e ossessioni (episodio 2), sul Papa, amico di Moro, e sul suo amaro dolore (episodio 3), sui terroristi (episodio 4), gli ultimi chiudono questo tragico affresco narrando la mistica sofferenza di Eleonora Chiavarelli, moglie di Moro, che, quasi da sola e inascoltata, prova a lottare per riavere il marito, e la fine dell’uomo. 

Esterno notte: una tragedia greca, una parabola cristologica che racconta la nostra storia e quella di un uomo

Bellocchio torna dopo quasi vent’anni da Buongiorno, Notte a raccontare quel 1978 che ha sporcato la politica italiana e la nostra storia. Proprio con Moro è morto un modo di fare politica, elegante e moderato, silenzioso ma rigoroso, equilibrato e lungimirante, ed è morta la fiducia in quei Palazzi – le grida “assassini” sono emblematiche del sentire collettivo – in cui tutto si modella e costruisce e non è un caso che proprio Bellocchio narri questa figura, anch’egli così elegante, moderato, silenzioso e rigoroso. Torna a parlare di quel vuoto in cui è scomparso Moro, del suo sacrificio e della sua crocifissione, e per analizzarli deve inevitabilmente tornare in quella piccola stanza buia in cui per 55 giorni lo statista ha sperato che i compagni intercedessero per lui. Quell’interno, visto dallo spioncino, però è diventato un esterno. Siamo in un’Italia oscura e divisa da una guerra civile, plumbea come la nostra Nazione, lo è nei volti della politica, ipocrita, opportunista, spietata, in quello di Cossiga (Fausto Russo Alesi) che continua a guardarsi le mani macchiate, a tenersi la testa come se i pensieri fossero troppo pesanti, a tormentarsi perché forse sa già come andrà a finire, di Andreotti (Fabrizio Contri) che sporco di vomito per lo strazio del momento già pensa a come organizzare le giornate successive, in quello di Zaccagnini (Gigio Alberti) che parla sempre di salute pubblica e mai dell’uomo rapito.

Bellocchio usa la giusta distanza per raccontare qualcosa che ancora sanguina, fa una fotografia socio-politica dell’Italia degli anni di piombo e penetra sotto la pelle dei suoi personaggi, si insinua dentro le loro coscienze, ne mostra i fantasmi, e uno di questi è Aldo stesso, e le paure.

Esterno notte è una tragedia greca, una parabola cristologica, che dimostra una coerenza poetica incredibile, un’eleganza ideologica e umana fuori dal comune: Moro solo, diverso da tutti, che porta una croce mentre gli altri tacciono, negano, attendono; Moro patisce, il Papa con lui, con il cilicio, l’uno porta una croce l’altro prova a portarne una sua ma è troppo malato e stanco; Moro umanissimo, la barba incolta, il volto rigato da lacrime e gli altri, in divisa, completo scuro, da rappresentanza, una maschera in viso, come fossero fantocci che interpretano un ruolo, così distanti da chi prima applaudivano ed ora abbandonano.

Il punto di vista di una donna che ha portato uno strazio senza fine sulle proprie spalle

E poi c’è lei, Eleonora, che è stata accanto ad un uomo non semplice – non a caso all’inizio del 5 episodio lei si confessa e descrive il disagio e la solitudine che lei prova in certi momenti -, così legato alla causa, così innamorato della politica. Poi arriva la tragedia. Mentre lei dice che a tratti vorrebbe scuotere il marito, sopra il cielo di Roma volano elicotteri per cercare Moro.

Eleonora, interpretata da una meravigliosa Margherita Buy, silenziosamente vive quei giorni nella sua casa, aspettando, telefonando, ascoltando ogni piccolo segnale. Chiama con discrezione, chiede di dimostrare interesse per quell’uomo che ha fatto del giusto mezzo e di quella stessa discrezione uno stile e una grammatica politica e umana. Ciò che le viene promesso si disperde nei giorni, quella vicinanza calorosa, il “fare l’impossibile” vengono meno, anzi Aldo Moro viene fatto passare per pazzo. In un importante dialogo con Zaccagnini, emerge la statura di Eleonora.

Eleonora: “l’anima più profonda di mio marito è sempre stata quella del mediatore, del conciliatore, dell’uomo di buon senso, l’anima del democristiano. Così sono i democristiani, o così dovrebbero esserlo, cristiani”

Non solo fisicamente Moro si erge sui suoi colleghi, compagni, una volta amici, anche nelle parole della moglie si sottolinea la diversità morale. Eleonora parla con straziante rigore chirurgico, lei nonostante il dolore è lucida: Aldo sta pagando per tutti, ci sarebbe potuto essere qualunque altro e lui non si sarebbe mai comportato come loro perché lui non è solo un democristiano ma è anche è soprattutto un cristiano. Delle parole ingiuste di Andreotti che pesano come macigni, “non è moralmente ascrivibile”, lei risponde con un doveroso e implacabile, “la tortuosità del serpente”. Quella moderata pacatezza cristiana lascia il posto ad una veemente presa di posizione, gli occhi sbarrati, la bocca tremante, la rabbia che sale.

Eleonora: “Mio marito chiede solo di trattare. Quindi Aldo deve morire”

Continua ma non riceve le risposte che vorrebbe, lei e gli altri parlano due lingue diverse, la vita di un uomo è meno importante dello Stato, delle istituzione, delle loro ragioni. C’è il ricatto brigatista e il dovere è difendersi.

I terroristi intanto minano quello stato con continui segnali: Moro è morto, dicono, per prepararli a ciò che da lì a poco sarebbe successo. I “grandi” si nascondono dietro a parole, Eleonora invece compie piccoli, grandi atti estremi e coraggiosi per chiedere aiuto e pietà.

Un altro dialogo importante, sempre al telefono, è quello con Cossiga.

Cossiga: “Ma ora basta perché nessuno possa accusarci, capisci?! Non vorremmo essere ancora insultati”

Eleonora: “Per Aldo eri come un figlio, ti ha creato lui, dovevi proteggerlo”

Cossiga: “Per questo non mi do pace”

Eleonora: “Trovalo, vivo, perché è vivo” 

Mentre Eleonora vive lo strazio Cossiga ascolta intercettazioni, sua grande ossessione, riflette, legge documenti ma non fa nulla. Eleonora piange, prega, implora, ma è poca cosa per la ragion di Stato. I brigatisti – dipinti come uomini con un disegno preciso mentre la DC appare come un gruppo di individui senza più un faro, lontani dall’idea stessa della democrazia cristiana, privati di Aldo Moro – telefonano a casa Moro, invitano la famiglia come ultima possibilità a chiedere aiuto a Zaccagnini, le sue parole potrebbero salvare un condannato, la donna prova a chiamare il Presidente, l’unico in grado di far cambiare opinione ad uno che ormai è di granito.

Eleonora arriva a fare un comunicato con cui prende le distanza dal partito e anche da quei “sedicenti amici” che hanno lasciato solo il marito. Bellocchio segue con umanissima compassione questa donna, ne scorge i piccoli mutamenti in quei 55 giorni, sul suo volto si scorgono le ore passate a pensare al marito, rinchiuso, consapevole di essere stato abbandonato. Si percepisce in Esterno notte il desiderio di realizzare un affresco con un tono epico e funereo che abbraccia ogni elemento dell’opera, dai colori alla musica, dalle interpretazioni alla sceneggiatura, dalla regia al racconto di Moro come un Cristo che sta portando la croce.

Esterno notte: un profondissimo e potente atto d’accusa verso una politica spietata e cinica

Zaccagnini: “Aldo è l’Italia”

Con l’ultimo episodio, Bellocchio chiude un percorso estremamente doloroso, popolato da fantasmi e proprio in quanto fantasmi difficili da cancellare. Il dramma di Moro c’è, esiste, fa parte della nostra storia ed è impossibile dimenticarcene. In questo ultimo capitolo c’è tutto il tormento, lo strazio dell’uomo, si entra nelle vene e nelle lacrime di chi ha vissuto la prigionia. Il regista porta le parole potentissime e dirompenti di Moro. Gifuni è lo statista con ogni parte del suo corpo, nella voce, nello sbattere delle ciglia, nelle mani che si muovono, nelle rughe, nella magrezza. Bellocchio dà ancora più intimità e intimismo a quest’uomo che si sente tradito e percepisce chiaramente la fine vicina, quando incontra un confessore, gli parla a cuore aperto senza alcun timore: ammette l’odio, e lo fa con un dispiacere profondo e reale, per le persone con cui ha condiviso battaglie, ideali, prova rabbia, vorrebbe urlare loro in faccia ciò che sente, e per lui è una condizione nuova, non ha mai alzato la voce.

Aldo Moro: “Odio l’onorevole Andreotti… è stato il regista di tutta questa vicenda, un uomo freddo, impenetrabile, senza un dubbio, senza un palpito, senza un momento di pietà umana”

Moro è talmente lucido, un grande conoscitore della realtà, della politica da sapere perfettamente cosa stia accadendo fuori da quella stanza, analizza perfino sé stesso, parla di Andreotti, del male che ha fatto eppure lui pur avendolo sempre saputo, pur avendo provato “un’irriducibile diffidenza” non ha voluto vedere. Passa poi a Cossiga, in un certo senso, pur ferito dal suo abbandono, lo perdona perché ha una giustificazione, è bipolare, ciclotimico, sale, scende, è un infelice, si potrebbe chiedere la seminfermità.

Si staglia la sua statura umana e quel percorso quasi cristologico, che la serie fa intorno allo statista, acquisisce, di minuto in minuto, spessore. Il suo discorso è pesante e profondo, parla di morte e di politica, di tradimento e solitudine, e del suo più grande errore quello di non voler morire. In quel momento mentre la fine è vicina, Moro esprime il peso di sentirsi l’unico sopravvissuto di quel giorno in cui tutto ha avuto inizio. 

La disperazione dell’uomo condannato a morte, da gente che non crede nello Stato e dai suoi stessi ex amici, lo fa essere ancora più categorico, anche se è chiuso in quelle quattro mura: ha rinunciato a tutto, a qualsiasi carica, non può rinunciare alla vita. Bellocchio lo ha fatto capire fin dal primo minuto, questo è un atto d’accusa ad una certa politica che si è lavata le mani sacrificando un uomo, e in ogni parola di Moro c’è tutta la rabbia, la rassegnazione disperata, la dolorosa delusione che non smette mai ma se possibile aumenta sempre più.

Mentre i brigatisti portano Moro a morire Cossiga corre per i corridoi per avere notizie, vede la mappa di Roma sanguinare, una delle tante immagini che si fa simbolo di qualcosa di più profondo, e Cossiga piange, impaurito e disorientato. Moro è lì, proprio in quella Capitale, i brigatisti percorrono quelle strade eppure nessuno sa niente, nessuno vede niente.

L’arrivo della notizia del ritrovamento della famosa Renault rossa in cui, di lì a poco, avrebbero scoperto il corpo morto di Moro, è una fucilata. La conosciamo benissimo questa scena eppure è come se fosse la prima volta, come se per un attimo avessimo sperato che la storia fosse diversa. Ci sono due possibilità che l’autore sceglie, immaginare che in quella macchina Moro sia vivo, salvato dalla lungimiranza dei brigatisti – di cui poi Moro prende atto -, e Bellocchio immagina una scena fortissima, e con un valore simbolico altrettanto forte, già vista nel primo episodio. Moro è sul letto d’ospedale, mentre guarda, con una lacrima che scende, Zaccagnini, Cossiga, Andreotti che lo guardano, impassibili e spaesati, a loro volta. Forse, non lo dicono, ma lo hanno pensato, avrebbero sperato di non rivederlo più. Le parole della voce over dell’uomo che raccontano delle sue dimissioni dalla DC perché ormai le loro strade sono inconciliabili, mettono una pietra sopra un rapporto già finito in quei 55 giorni. 

La realtà purtroppo è un’altra, il corpo dentro quella macchina è senza vita. Lo rivediamo in un telo bianco, assistiamo al momento in cui Eleonora rivede il suo Aldo, sentiamo la lettera delicata e tenera in cui lui la chiama Noretta, in cui le trasmette le carezze da dare ai loro figli, attraverso le mani di lei arriverà loro anche il calore di lui. Questo è un dei tanti momenti in cui si conosce il Moro, padre, marito, quello privato con cui il regista stinge le maglie di questo racconto complesso, monumentale ed epico.

Un lavoro immenso con una coerenza incredibile

Esterno notte è un lavoro immenso, un’Odissea contemporanea, una riflessione sull’Italia che racconta chi siamo stati, cosa siamo diventati e per quale motivi siamo diventati chi siamo. L’opera di Bellocchio non lascia mai in pace, fa sentire in colpa, sporchi tanto quanto quei politici che non hanno ascoltato e si sono voltati dall’altra parte. Ciò che colpisce è la statura di Moro, la sua dignità e quella della sua famiglia che si esemplifica nell’ultima richiesta non rispettata, di non celebrare funerali di Stato perché quello stesso non ha lavorato per riportare a casa il loro congiunto. Tutto si fa ancora più grottesco quando ci vengono mostrate le cariche rivestite successivamente da Cossiga e Andreotti, testimoniando quanto in Italia la storia si dimentichi facilmente. Il regista mette in scena le giornate più oscure del nostro paese, la desolazione di Moro, quella di sua moglie, la piccolezza di un gruppo di politici che hanno aspettato che l’irreparabile accadesse.

Regia - 4
Sceneggiatura - 4.5
Fotografia - 4
Recitazione - 4.5
Sonoro - 4
Emozione - 4

4.2

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