Our House: recensione del film Netflix

Our House, disponibile su Netflix, è un horror ibrido e indeciso che parte come un family drama lacrimoso per poi virare verso il mystery.

Due ragazzi e una bambina restano orfani dei genitori all’improvviso. Ethan (Thomas Mann), il maggiore dei tre fratelli, dotato di un enorme talento per la scienza, da tempo lavora a un dispositivo che, se ultimato, permetterebbe di liberare energia senza ricorrere a fili. Realizza, però, in modo quasi inconsapevole, uno strumento per attirare presenze paranormali. S’illude, così, che il suo macchinario intercetti i fantasmi dei genitori ed è determinato a recuperare questi ultimi dal regno dei morti, ma l’evolvere sinistro degli eventi lo costringe a guardare in faccia la realtà.

Our House, un horror che segue la tendenza alla contaminazione propria delle ultime sperimentazioni

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Our House, lungometraggio del cineasta autodidatta canadese Anthony Scott Burns, testimonia un fenomeno interessante nell’ambito dei film di genere, in modo particolare nell’universo horror: la tendenza alla contaminazione delle ispirazioni. Nessuno, guardando Scappa – Get Out, piccola gemma di Jordan Peele, giusto per citare uno degli esempi insieme più riusciti e più recenti, saprebbe decidersi se si tratta di uno splatter, di un thriller che ammicca all’horror o di una satira sociale: l’opera contiene tutte e tre queste anime e anche qualcuna in più.

Stessa cosa di potrebbe appunto osservare a proposito di questo nuovo film del catalogo Netflix che parte come un family drama lacrimoso e poi vira verso il mystery con un dirottamento finale verso il corpo a corpo orrorifico con il perturbante. Siamo di fronte a un prodotto filmico ibrido e anche un po’ indeciso, che non riesce, però, a fare di questa sua incertezza strutturale un punto di forza, un’occasione di esplorazione e di liberazione, un manifesto di sovvertimento dei codici: Our House resta, così, fino alla fine, un film incapace di sollevarsi al di sopra della propria rudimentalità, della propria – non liberatoria, anzi castrante – improvvisazione.

Our House: un film che paga una post-produzione caotica e l’assenza di visione

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Se già il mito di Orfeo ed Euridice ci aveva ammonito che tentare di riscattare i morti dal loro grande sonno è impresa vana e a chi resta è concessa solo l’illusione di provarci, Our House, che parte dallo stesso principio, dissipa l’opportunità di alzare il registro e di scavare un po’ di più all’interno dei legami che sopravvivono alla separazione fisica, quei fili sottilissimi, rassicuranti o spaventosi, chissà entrambe le cose insieme, che stringono e costringono le persone alla memoria passata e all’indissolubilità della prossimità affettiva.

Ogni cosa, in questo film di Anthony Scott Burns, è abbozzata superficialmente, con molta cura per gli effetti sonori (si percepisce che il regista proviene dal mondo della musica e da lì si abbevera), ma poca, pochissima, per le parole: i dialoghi più di tutto pagano lo scotto della latitanza autoriale, della mancanza di un timone creativo e di una focalizzazione più precisa. Va, tuttavia, puntualizzato che il progetto iniziale, dal titolo Breathing, è cambiato in corsa, con radicali rimaneggiamenti di editing in fase di post-produzione.
Il taglia e cuci c’è stato e si vede ed è un peccato perché Our House avrebbe potuto aggiungere qualcosa a questo fenomeno di riconsiderazione del genere horror e di ampliamento delle sue diramazioni, inoltrandosi, magari, in una dimensione più verticale e filosofica. Invece, un po’ ammicca al prodotto teen, un po’ alleggerisce l’impatto spaventoso, avvolgendo ogni colpo in una pellicola, in un filtro che neutralizza qualsiasi possibilità di sconvolgere, di far rabbrividire nel profondo.

Regia - 2
Sceneggiatura - 1.5
Fotografia - 2
Recitazione - 2
Sonoro - 2.5
Emozione - 1.5

1.9

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