No Other Choice: recensione del film da Venezia 82

Il film di Park Chan-wook, con Lee Byung-hun, presentato in concorso alla 82ª edizione del Festival di Venezia, sa essere disturbante e lucida, violenta e sarcastica.

Certezze, stabilità, controllo. L’illusione di “avere tutto” che si spegne nel momento stesso in cui il lavoro – unico vero pilastro della vita contemporanea – viene meno. No Other Choice, il film di Park Chan-wook si muove su questo orizzonte, mostrando il crollo di un uomo che scopre come ogni sua sicurezza sia stata edificata sulla precarietà. Presentato in concorso all’82ª Mostra del Cinema di Venezia, il film nasce da un progetto coltivato dal regista per vent’anni, ispirato al romanzo The Ax di Donald E. Westlake. Nel cast spicca il protagonista Lee Byung-hun (Squid Game), accanto a Son Ye-jin, Park Hee-soon e Lee Sung-min. La sceneggiatura porta la firma dello stesso regista insieme a Don McKellar, Lee Kyoung-mi e Lee Ja-hye, mentre la fotografia è affidata a Kim Woo-hyung e il montaggio a Kim Sang-bum. La colonna sonora, ipnotica e tagliente, è dello storico collaboratore del regista, Jo Yeong-wook. Tra satira sociale e thriller grottesco, Park Chan-wook costruisce un’opera che è al tempo stesso spietata e ironica, capace di ridere amaramente del destino umano piegato al dominio del capitalismo.

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No Other Choice e la carta come metafora della fragilità

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Man-su è un uomo che pensa di avere raggiunto l’equilibrio perfetto: una casa solida, una famiglia unita, un lavoro stabile nella produzione di carta. La sua esistenza si regge sulla linearità, sulla convinzione di appartenere a un mondo che premia la dedizione e la rettitudine. Quando l’azienda annuncia i licenziamenti, la sua vita cambia irreversibilmente: la solidità del passato si rivela un castello di una carta ben più fragile, pronto a dissolversi. La ricerca di un nuovo impiego diventa un percorso di umiliazioni, rifiuti e frustrazioni, che lo allontanano progressivamente dall’immagine dell’uomo saldo e rispettabile che era sempre stato. Più cerca di rientrare nel meccanismo produttivo, più la sua figura si incrina, incapace di adattarsi a un mondo che non ha più posto per lui. La sua identità, fino ad allora definita dal lavoro, si sgretola insieme alla sua dignità. È in questo abisso che prende forma un piano oscuro: non restano che scelte radicali, mosse da una disperazione che diventa carne e sangue.

Il film esplora il dramma universale di un sistema che riduce l’individuo al ruolo che ricopre, mette in scena la violenza nascosta del capitalismo: la perdita del lavoro non è solo un trauma economico, ma un collasso ontologico che trascina con sé famiglia, status, legami sociali. La “carta” – materia su cui Man-su ha costruito la sua esistenza – diventa metafora della fragilità del vivere contemporaneo, sottile e destinata a spezzarsi al primo colpo. La discesa del protagonista non è solo personale, ma collettiva: rappresenta l’ossessione di una società che equipara ciò che si fa a ciò che si è. Non c’è altra scelta che aderire a questo meccanismo, pena la marginalità. Park alterna momenti di feroce crudeltà a lampi di ironia nera, mostrando come la disperazione possa farsi grottesca, come l’umiliazione possa generare mostri. La tragedia personale si intreccia con la satira sociale, in un equilibrio sottile che restituisce l’immagine di un mondo disumanizzato, senza alternative né redenzione.

No Other Choice: valutazione e conclusione

No Other Choice è un’opera che colpisce per la sua capacità di essere insieme disturbante e lucida, violenta e sarcastica. Park Chan-wook costruisce un film che non concede scampo: lo spettatore è trascinato in una spirale che parte dalla normalità quotidiana per sfociare in un incubo morale, sempre filtrato da un’ironia beffarda. La regia è elegante e chirurgica, ogni inquadratura è studiata come un atto di denuncia, ogni dettaglio visivo racconta la precarietà di un uomo che si dissolve. Lee Byung-hun offre una performance straordinaria, capace di incarnare con precisione la fragilità, la rabbia e la metamorfosi di un personaggio spezzato dalle circostanze. La moglie Miri, interpretata da Son Ye-jin, diventa contrappunto emotivo di un dramma che travolge l’intero nucleo familiare. Non c’è compiacimento estetico, ma un racconto che affronta senza filtri la disumanizzazione contemporanea. In definitiva, il regista sudcoreano firma un film che è al tempo stesso riflessione sociale, satira crudele e thriller disperato: uno specchio che rimanda l’immagine di un mondo in cui davvero non sembra esserci altra scelta se non piegarsi al lavoro, anche a costo di perdere sé stessi.

Regia - 4
Sceneggiatura - 4.5
Fotografia - 4
Recitazione - 4.5
Fotografia - 4
Emozione - 4

4.2