Mute: recensione del film Netflix di Duncan Jones

La nostra recensione di Mute, film originale Netflix diretto dal celebre e apprezzato regista di Moon Duncan Jones, figlio del compianto David Bowie

Mute è un film del 2018 scritto e diretto da Duncan Jones, regista britannico noto principalmente per essere il figlio del compianto David Bowie e per il suo primo lungometraggio Moon, piccolo cult acclamato da pubblico e critica di tutto il mondo. I protagonisti della pellicola sono Alexander Skarsgård, Paul Rudd e Justin Theroux. Presente inoltre con un piccolo cameo Sam Rockwell, che riprende per pochi istanti il ruolo di Sam Bell da lui interpretato nel già citato Moon. Mute

In una futuristica e ipertecnologica Berlino del 2050, seguiamo le vicende di Leo (Alexander Skarsgård), muto fin dall’infanzia a causa delle conseguenze di un brutto incidente in acqua non curato adeguatamente dalla madre di fede Amish. L’uomo, auto isolatosi dalla società a causa delle sue conservatrici e per certi versi retrograde credenze religiose, si innamora perdutamente della bella Naadirah (Seyneb Saleh), che però scompare improvvisamente senza lasciare alcuna traccia. La sua strada si incrocia con quella di Cactus (Paul Rudd), padre single ed ex soldato, che assiste alcuni malavitosi feriti in azione insieme all’amico Duck (Justin Theroux). Fra rivelazioni, inganni e colpi di scena, Leo dovrà fare i conti con le proprie debolezze, addentrandosi nei meandri più torbidi e malsani della società.

Mute: il messaggio d’amore di Duncan Jones al compianto padre David Bowie

Mute

Fin dai primi minuti di Mute è evidente il debito di riconoscenza da parte di Duncan Jones verso il seminale Blade Runner, da cui riprende soprattutto l’estetica cyberpunk, le atmosfere dispotiche e l’inquietante rappresentazione di una società sempre più tecnologizzata e sempre meno umana. Su questo importante e scomodo riferimento visivo e culturale, il giovane regista britannico impernia un racconto cupo e doloroso, arricchito da diversi spunti autobiografici, come l’ambientazione in una soffocante Berlino, in cui ha vissuto per alcuni anni insieme al padre, o l’enfasi sulle difficoltà genitoriali, sottolineate dalla dedica finale allo stesso Bowie e alla tata che l’ha cresciuto, entrambi deceduti da poco. Un’opera densa e stratificata, forte di diversi risvolti interessanti ma a tratti indebolita da alcune scelte poco efficaci, che ne penalizzano la resa complessiva.

Mute ci precipita in una Berlino fatta di luci al neon, tecnologia avveniristica e palazzi mozzafiato, utilizzando questo contesto come sfondo a una storia dai toni decisamente intimi e disperati, in cui il bisogno d’amore incrocia il progressivo impoverimento umano e dove lo squallore dei bassifondi della società affossa la sensibilità dei pochi ancora capaci di concedersi totalmente ai sentimenti. A catalizzare l’attenzione dello spettatore è certamente il personaggio di Leo, che Alexander Skarsgård caratterizza perfettamente, pur senza poter ricorrere all’utilizzo della parola, con un mix di emozioni che attraversa l’impaccio e la timidezza fino ad arrivare alla più cieca e incontrollabile collera. Per concentrarsi sui disagi e sulle sfumature caratteriali causate dalla particolare menomazione di Leo, Duncan Jones mette però in secondo piano il ben più interessante contrasto fra il protagonista, frenato dai suoi precetti morali, e un mondo in cui la tecnologia ha un peso specifico sempre maggiore.

Mute: che cosa significa realmente essere genitori?

Ciò che rende Mute un prodotto meno efficace e centrato di quanto avrebbe potuto essere è la non eccelsa amalgama fra la disperata ricerca della sua amata da parte di Leo e le vicende dei corrotti e controversi Cactus e Duck, protagonisti di un’amicizia tormentata e contraddittoria, fatta di lotta contro i propri demoni interiori, ma anche di reciproca comprensione. Peccato che questi due inquietanti figuri, ben interpretati da un repellente Paul Rudd e da un irriconoscibile Justin Theroux, vengano solo saltuariamente sfruttati per un vero e lacerante scontro fra le loro personalità e troppo spesso coinvolti in vicende ai margini della trama principale. Buono invece l’apporto da parte delle musiche di Clint Mansell (già autore della colonna sonora de Il cigno nero), che rendono loquaci i silenzi di Leo e sottolineano i passaggi più intensi.

Anche nei passaggi a vuoto, Duncan Jones è abile a gestire il ritmo della narrazione e a dosare suggestioni e rivelazioni, puntando più su tematiche a lui particolarmente care che su virtuosismi alla regia, limitata invece a poco più di un compitino. Nel terzo atto, Mute trova così una propria sincera e apprezzabile strada, con le diverse sottotrame e le varie tematiche affrontate che confluiscono in uno straziante finale e in una struggente riflessione su cosa significhi realmente essere genitori e su quanto si possa essere disposti a fare per proteggere i propri figli.

Mute sa fare riflettere e toccare le corde del cuore dello spettatore

Mute

In conclusione, Mute si rivela un film imperfetto ma non privo di spunti interessanti, che testimonia il lampante talento di Duncan Jones nella costruzione di atmosfere e personaggi. Un film che sa fare riflettere sulla sempre più forte invasività della tecnologia nel costume, nelle relazioni e persino in camera da letto, toccando al contempo le corde del cuore dello spettatore con personaggi veri e tridimensionali, che da diversi punti di vista e con differente modalità ci mostrano sia i lati più cupi dell’animo umano sia una capacità di amare e sacrificarsi che nonostante tutto continua a germogliare.

Mute è disponibile su Netflix dal 23 febbraio in tutti i paesi in cui il servizio è attivo.

Regia - 3
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 3.5
Recitazione - 3
Sonoro - 3.5
Emozione - 3.5

3.3

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